martedì 28 febbraio 2017

Le braci di Galdar-Mesh, cap. III




3.

La donna si muoveva con disinvoltura nel buio dei corridoi. Mancava ai suoi passi la leggerezza guardinga di chi è abituato ad aggirarsi senza invito per le abitazioni altrui; tuttavia, se pure si trattava con ogni evidenza di una dilettante, aveva studiato con scrupolo il percorso. Evitava i luoghi sorvegliati, e anticipava le mosse delle guardie, come ne conoscesse già la abitudini. Sceglieva spesso itinerari tortuosi, mai senza ragione. Ben poco le restava in comune con la fanciulla braccata che i mercenari avevano incontrato nel deserto. Alla penombra delle lampade i suoi occhi scintillavano di impazienza; i movimenti suggerivano una fermezza non priva di grazia, che avrebbe persino potuto incutere soggezione nei due che la accompagnavano, se costoro non avessero avuto la mente occupata da altri pensieri.
«Non mi piace questo posto, Huzziya.»
Huzziya, il colosso, non replicò; ma una smorfia di disgusto rivelò che nemmeno lui apprezzava l’odore di cui erano impregnate le pareti del tempio. Un odore penetrante, nauseabondo, di incenso e balsami esotici e qualcosa d’altro, che ricordava la carne bruciata. Eppure più forte del disgusto era stata la promessa dell’oro e dei preziosi che, a sentire la fanciulla, si trovavano in abbondanza nei sotterranei del tempio. Arrivato a quel punto, un uomo come Huzziya non se ne sarebbe andato senza prima essersi riempito le tasche, o almeno...
La giovane si bloccò senza preavviso. Girò sui tacchi e fece ampi cenni agli accompagnatori di togliersi di mezzo. I due uomini seppero presto la ragione.
Passi nel corridoio. Un uomo saliva dal fondo di una scalinata. Li aveva visti? Se avesse continuato ad avvicinarsi avrebbe finito per vederli presto. I tre intrusi si appiattirono nell’ombra. Mani furtive scoprirono l’elsa delle scimitarre. Tutti e tre sapevano che le lame avrebbero dovuto guizzare con rapidità e precisione, per raggiungere la gola dell’uomo prima che un grido d’allarme potesse lasciarla.
I secondi passavano e la guardia non veniva. Giunse invece un suono di passi più numerosi, e il tramestio di voci concitate. La distanza era troppo grande per distinguere un discorso, ma fra le altre riecheggiò nel corridoio la parola ‘intrusi’. Huzziya gonfiò il petto, come aveva già fatto nel deserto, prima di affrontare la schiera dei cavalieri dalle maschere d’oro.
«Preparati, Telepinu.»
Già da un pezzo Telepinu si preparava allo scontro; anzi, si può dire che una parte di lui lo bramasse. Non temeva il numero delle guardie, ma qualcosa di sconosciuto, incomprensibile, che aveva percepito fin da quando aveva fatto il primo passo nel tempio; l’odore che gli incensi si sforzavano di coprire. A ogni minuto del tesoro gli importava sempre meno. Piuttosto sperava che le guardie li trovassero, che dessero l’allarme, perché allora a lui e Huzziya non sarebbe rimasto che fuggire. Ma invece di avvicinarsi, passi e voci si allontanarono; presto nel corridoio non ne rimase che un’eco lontana. La giovane uscì dalle ombre, si accertò che la via fosse sgombra, fece cenno ai compagni di seguirla. Huzziya controllò il corridoio due o tre volte prima di obbedire. Con un sospiro Telepinu rinfoderò la scimitarra.
Raggiunsero presto un terrazzo coperto, che affacciava su un ampio chiostro semicircolare. Nel chiostro si trovava un gruppo di soldati dalle maschere d’oro: trattenevano uno straccione macilento che tremava e piangeva davanti a una vasca di pietra. Di là dalla vasca, dal pulpito dell’altare, incombeva una figura di porpora e nero. Fu quest’ultima a catturare l’attenzione di Telepinu.
La luce dei candelabri rifletteva il pallore innaturale di un viso ossuto, incoronato da un diadema di onice su cui svettava l’effige di un marabù ad ali spiegate. Le mani erano nascoste dalle lunghe maniche della veste, che si ricongiungevano davanti al petto, come in un atto di attesa o preghiera. Un fumo sottile saliva dai bracieri agli angoli dell’altare. L’odore di incenso e carne bruciata era sempre più forte.
Prima che Telepinu potesse interrogare la donna, l’uomo col diadema levò le braccia al cielo. Dita scheletriche si dischiusero, e lo spazio del cortile fu colmato da parole di una lingua sconosciuta; una nenia dissonante innalzata alle primordiali costellazioni che sfregiano il cielo notturno. Un soldato afferrò il prigioniero per i capelli e passò sulla gola scoperta la lama di un pugnale. Il sangue schizzò dalla ferita; gocce cremisi imbrattarono i gradini dell’altare; un flusso copioso scivolò sulla pietra della vasca. La cantilena salì di tono. Accadde allora un che di bizzarro e terrificante.
Sotto lo sguardo attonito degli intrusi nascosti, esili strisce vaporose esalarono dagli occhi e dalla bocca del prigioniero, contratta in un grido privo di suono. I vapori si mischiarono al fumo degli incensi, formando una bruma variopinta sopra l’uomo col diadema. Man mano che il canto aumentava di volume, la bruma ingrossava, mentre la carne del prigioniero si consumava come un tizzone nel focolare.
Shaä nāqba kmûru ïna qereb lïbbï āliïm... 
Il canto si interruppe bruscamente. L’uomo col diadema gettò il capo all’indietro. Voluttuosamente aspirò dalle narici la bruma che aleggiava su di lui. Quando il prigioniero cadde, il poco che restava del suo scheletro annerito si sgretolò all’impatto col suolo.
«L’uomo che ha stretto un patto proibito con dei antichi e crudeli per usurpare il trono di Taif», sussurrò la fanciulla, rispondendo a una domanda che nessuno aveva posto.
«Il suo nome è Shakalaka DOOOM!»
«Shakalaka... Doom?» ripeté Huzziya, perplesso.
«No, Shakalaka DOOOM!»
«D’accordo, non c’è bisogno che urli.»
«Non mi interessa come si chiama», disse Telepinu. «Per quanto mi riguarda, ho visto abbastanza.»
«Il vostro oro è vicino», replicò la fanciulla.
Telepinu la ignorò. Per tutta la notte si era sforzato di tenere a bada l’istinto che lo implorava di girarsi, correre, fuggire, porre la maggiore distanza possibile fra sé e quel tempio di dannati. Per un lungo momento fu tentato di esaudire quella richiesta. Fu allora che riconobbe il bagliore negli occhi di Huzziya, e seppe che ogni insistenza sarebbe stata inutile. Poteva solo scegliere se continuare a seguire lui e la donna nella ricerca del tesoro, o tentare di aprirsi la strada verso l’uscita, da solo.
Si morse il labbro. In effetti, non era davvero una scelta.
Procedettero per anditi segreti. La sorveglianza sembrava adesso meno serrata, come se la notizia degli intrusi l’avesse diradata anziché fortificarla. Telepinu si domandò se non avesse inteso male le parole delle guardie nel corridoio. O forse si trattava di una trappola? Era immerso in ragionamenti di tal sorta quando si accorse di avere passato la soglia di un grande salone sotterraneo. A stento trattenne un grido, poi che un’ombra ciclopica si stagliò su di lui.
«Trattenete la lama», disse la donna. «Il dio-guerriero Ishkibal era il guardiano di Taif, prima che il culto blasfemo di Shakalaka DOOOM lo esiliasse nei sotterranei. Non vi farà alcun male. Almeno, non in questa forma.»
Con un borbottio di stizza Telepinu rinfoderò la scimitarra, estratta prima di comprendere che l’ombra non apparteneva a un ciclope, ma a una statua. La sua evidente apprensione suscitò un sogghigno in tralice sulle labbra di Huzziya; ma anche la mano del colosso si era avvicinata all’elsa.
«Pare che il guardiano di Taif sia stato retrocesso a guardiano dei vicoli ciechi». Huzziya indicò la solida parete di mattoni al di là della statua.
«La fede in Ishkibal apre vie sconosciute ai profani», replicò la donna. Premette una protuberanza nel corpo della statua, e di là dalla parete si udì lo scatto di un ingranaggio, seguito dallo scorrere di cavi e carrucole. Una porzione di muro in fondo al salone scivolò verso il basso, rivelando i primi gradini di un’angusta scalinata che sprofondava nel buio.
La fanciulla staccò una torcia dalla parete. «Siamo quasi arrivati», disse, con la trepidazione che prelude all’esultanza. Per la prima volta da quando avevano fatto ingresso nel tempio, Telepinu provò una sensazione simile al sollievo. La quale, rapidamente come era giunta, si dissipò. Anche l’espressione della giovane era subito cambiata in una smorfia nervosa, quasi apprensiva. Un che di anomalo dimorava in quella scalinata. Come se l’oscurità fosse un oggetto solido, concreto; un corpo che la luce della torcia non riusciva a penetrare.
Qualcosa raggiunse le orecchie di Telepinu. Un suono viscido e ponderoso. Il respiro disarticolato di cose che non appartengono a questo mondo. La giovane pronunciò un nome, una nota di terrore le incrinò la voce. Allora l’oscurità si mosse.

martedì 21 febbraio 2017

Le braci di Galdar-Mesh, capp. I e II

Orme di stivali sul manto ardente del deserto. Due file parallele, che tracciavano una scia leggera, regolare, simile a una cicatrice sopra un volto immane di sabbia. Una coppia di figure in grigio scivolava a testa bassa fra le dune. Di rado si scambiavano uno sguardo, mai una parola. Il ritmo della loro avanzata non mutò nemmeno quando videro la fanciulla accorrere da Sud e gettarsi senza fiato ai loro piedi.
«Dovete aiutarmi.»
Aveva labbra secche e tumide, come quelle di chi da troppo tempo non assaggia il sapore dell’acqua, e guance sudice di polvere e pianto. La voce era spezzata dalla disperazione; ma anche nella supplica batteva un accento di comando. La fanciulla si aggrappò al ginocchio del più vicino dei due uomini, come il martire al palo del supplizio.
Se l’uomo cui il ginocchio apparteneva – dovremmo dire: il colosso, poiché avrebbe superato di tutta la testa il più alto dei guerrieri di Ur – se l’uomo avesse esaminato con attenzione gli occhi che lo imploravano, avrebbe riconosciuto, dietro la maschera di angoscia, quella specie di bellezza altera per cui sono note le donne kirzaniane. Ma il suo sguardo era altrove, all’orizzonte, dal quale ora si alzava una nube di sabbia, e sotto la nube una schiera di cavalieri, a dorso di cammello, sulle cui maschere d’oro battevano i dardi di un sole famelico.
«Non vogliamo guai.»
A parlare era stato l’altro uomo, il cui aspetto segaligno mal si accordava con il suono greve della voce. Non aveva l'aria del guerriero. Nondimeno, la donna dovette notare il baluginio dell’acciaio sotto il grigio del mantello. Frettolosamente rovistò fra le pieghe della propria veste per estrarre una pietra rutilante, ben squadrata, piena come un’albicocca matura. Il più severo dei gioiellieri di Valdonia non avrebbe esitato a definirla un rubino di taglio eccezionale.
Negli occhi dei due uomini passò quel bagliore che presso ogni popolo esprime l’avidità del cuore. Poi il colosso tornò al drappello, che avvicinandosi si faceva sempre più largo e fitto. «Non basta», disse.
«Ce ne sono altri da dove vengo», insistette la giovane. «Molti altri, in confronto ai quali questo è poco più che un ciottolo per i giochi dei fanciulli.»
E continuò a supplicare con racconti e promesse, e si chinò, e premette la fronte nella sabbia incandescente, mentre gli uomini tacevano, e il vento del Sud portava le grida dei cavalieri. Vicine, sempre più vicine.
I due stranieri in grigio scoprirono i mantelli e abbassarono la mano all’elsa delle scimitarre.

2.
Le dita gelide della notte si distendevano sui tetti e le vie di Taif. In un tempo non ancora lontano la città-stato di Taif era sorta come un giardino nel mezzo del deserto di K’besh; oasi rigogliosa per le carovane dei mercanti, che la ricercavano per acquistare rifornimenti e ristoro, e malvolentieri se la lasciavano alle spalle. Tuttavia, da quando il principe era caduto in malattia, e il gran visir aveva raccolto lo scettro del comando, un velo di decadenza soffocava la città. Correva voce che antichi dèi blasfemi avessero sussurrato all’orecchio dell’usurpatore leggi nuove, inumane, di cui nessuno conosceva i dettami fino a quando non scopriva di averli violati. Allora venivano i soldati dalle maschere d’oro, e trascinavano lo sventurato nel tempio di Ishkibal, da cui nessuno tornava.
Da molti mesi gli abitanti della città vivevano rinchiusi nelle abitazioni, ed esitavano persino ad affacciarsi alle finestre, per timore di incorrere nell’ira del visir. Giorno dopo giorno la città invecchiava e imputridiva. Gli alberi di palma, che in passato avevano dato frutti turgidi di nettare, avvizzivano sulle sponde di uno stagno torbido e molle. Sulla superficie limacciosa dell’acqua solo mosche e zanzare prosperavano, ingrassando una colonia di rospi, la cui pelle vischiosa gemmava di vesciche e bubboni purulenti. Qualche derelitto senza meta né speranza si aggirava talvolta per edifici abbandonati, che nessuno più avrebbe potuto chiamare case, in cerca di una crosta non ancora rosicchiata dai topi.
«Venerabile derelitto, può noi chiedere piccola informazione?»
Il derelitto sollevò la fronte: per un momento fu come se la luna gli sorridesse. Era un sorriso incorniciato di sottili baffi neri, con una treccia di barba ispida che scendeva come un ruscello fino all’ombelico, e il sorriso non apparteneva alla luna, bensì a un uomo del Qtai. Cosa ci facesse un uomo del Qtai in mezzo al deserto di K’besh, era una domanda alla quale il derelitto non seppe rispondere.
«Mio nome è Jin BaoBao. Tu perdona se noi disturba, ma mio buon amico Ullr e io fatta molta strada per cercare due signori che viene di lontano. Loro portano scimitarre come guerrieri di Ur, ma non è guerrieri di Ur. Tu ha visto loro qui?»
Per un lungo momento il derelitto fissò lo straniero chiamato Jin BaoBao come avrebbe fissato uno spettro infernale. Poi ribaltò gli occhi e disse: «QUESTA È LA CITTÀ MALEDETTA DI TAIF.»
«Va bene ma tu ha visto uomini di cui io parla?»
«CHI ENTRA A TAIF NON NE ESCE MAI PIÙ.»
«Guarda, loro è fatti così.»
E Jin BaoBao srotolò davanti al derelitto una pergamena, sulla quale erano ritratti due volti dai lineamenti vagamente umani. Il derelitto si interruppe. Osservò i ritratti con un misto di incredulità e sbigottimento.
«SEMBRANO DISEGNATI DA UN CANE.»
Qualcosa si mosse alle spalle di Jin BaoBao. Una figura corpulenta, estesa in larghezza più che in altezza, si stagliò sul derelitto, eclissando la luna e le stelle. Non fosse stato per la foltissima barba, rossa come vino forte, oltreché per la postura bipede, avrebbe potuto scambiarsi per un ippopotamo.
«Pace e serenità, Ullr. Venerabile derelitto non voleva insultare tua tecnica di disegno.»
L’ippopotamo, vale a dire l’individuo chiamato Ullr, emise un suono stizzito che poteva suonare così: «Mbof». Ma arretrò di due passi, e la luna tornò a splendere sul derelitto; il quale rimase zitto, immobile, stranito, come in contemplazione del vuoto fra gli astri.
«Insomma, ha tu visto signori o no? Noi non ha tempo da perdere.»
Il derelitto taceva. Solo quando Jin BaoBao gli passò una mano davanti agli occhi capì che l’uomo era svenuto dal terrore.

Le dita gelide della notte continuavano a distendersi sui tetti e le vie di Taif. Ombre fameliche strisciavano per i muri di una vecchia torre. Fra le fessure della pietra s’intuiva lo scalpicciare delle piccole creature dai molti piedi che dimorano sotto la sabbia. Talvolta un disgraziato senza senno né rifugio si appisolava ai piedi di un informe blocco di diorite, che in un passato ormai perduto aveva ritenuto l’aspetto di una statua.
«Venerabile disgraziato, può noi chiedere piccola informazione?»
Un occhio sonnolento si dischiuse. Passò dall’uno all’altro dei visitatori, tremando indugiò sul più lontano dei due. Avrebbe potuto scambiarlo per un grasso tricheco, che avendo scotennato un tartaleone si era cinto della sua criniera. Peccato che l’occhio dell’infelice non avesse mai conosciuto un tartaleone, né tantomeno un tricheco.
«Tu non ha paura, venerabile disgraziato. Io e mio amico Ullr non vuole fare del male.»
«QUESTA È LA CITTÀ MALEDETTA DI TAIF.»
«Anche tuo collega prima ha detto così.»
«CHI ENTRA A TAIF NON NE ESCE MAI PIÙ.»
«Noi sa già tutto, grazie. Ora però noi cerca due signori che viene di lontano. Uno molto alto e molto brutto. Altro solo molto brutto. Guarda, somiglia a questi due.»
«SEMBRANO DISEGNATI DA UN MONCO.»
Il tricheco dalla criniera di tartaleone, vale a dire Ullr, grugnì un grugnito di disappunto, che poteva suonare così: «Mbof». Jin BaoBao si affrettò a trattenerlo, ma il disgraziato, fattosi all’istante cinereo, era già appassito come un crisantemo ai piedi del suo blocco di diorite.
«Così non va bene, Ullr», sospirò l’uomo del Qtai. «Meglio se noi prova in altra maniera.»

Le dita gelide della notte persistevano nel distendersi sui tetti e le vie di Taif. Presso lo scheletro di una fontana in rovina, uno straccione senza pace né criterio tentava di placare l’arsura piluccando l’umidità delle muffe che crescevano fra i mattoni – quando una mano dalla forza ursina lo afferrò per la collottola e lo sollevò di tre o quattro spanne da terra.
«Scusa venerabile straccione della città maledetta di Taif da cui chi entra non esce mai più, ha tu visto di recente questi due signori che sembra disegnati da cane monco?»
Lo straccione non seppe nulla del viso dell’uomo che gli poneva le domande o di quello del proprietario del braccio dalla forza ursina. Ne vide in compenso altri due, non belli, sul rotolo di pergamena svolto davanti al suo naso. E in qualche modo dovette riconoscerli, o forse reputò prudente fingere di averli riconosciuti, perché puntò il dito verso il fondo della strada e disse: «Sono andati di là!»
«Molto grazie venerabile straccione», rispose la voce di prima, con un marcato accento del Qtai. Un attimo dopo lo straccione ricadeva sui ciottoli davanti alla fontana. Quando sollevò lo sguardo, gli parve di scorgere due ombre assai diverse per stazza e andatura, ma in qualche modo somiglianti l’una all’altra, che fianco a fianco si incamminavano verso il grande tempio in fondo alla strada.