mercoledì 18 marzo 2015

CLASSIC BADASS: Gli stati e gli imperi della Luna




Italia, secolo XVII. Un villaggetto di campagna viene svegliato nel cuore della notte dall'ululato feroce dei cani. Gli abitanti accorrono da tutte le parti. Da dove viene, che sarà mai. Le volpi. Un orso. I lanzichenecchi.

Non proprio: è un naso alquanto grosso, attaccato a uno straniero dall’aria spaesata. Che subito alza le mani. “Boni oh state boni.” Parla con un marcato accento francese, indica i cani. “Dispiace per il casino, devo averli mandati in bestia io, mi sa che puzzo ancora un po’ di luna, sapete com’è, sono appena tornato.”
In effetti lo straniero sembra proprio un lunatico – magari non nel senso che dice lui. Eppure...

Eppure si tratta del famigerato Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac, ex-moschettiere e guascone ad honorem oltreché filosofo, drammaturgo, poeta.

Per capire cosa ci faccia in Italia e perché tutti quei cani ce l’abbiano con lui, bisogna fare un passo indietro.


"Cristiano il bello lo faccio io."

La storia di Cyrano è nota. Nasce a Parigi nel 1619 e già da marmocchio mette in luce quelli che diventeranno i suoi tratti fondamentali: la spavalderia, la vena poetica e “un naso alquanto grande”. A diciannove anni entra nei moschettieri del re. È l’unico non-guascone in una compagnia di veterani D’Artagnan: ma dopo averlo visto combattere i compagni gli assegnano subito il patentino ‘uno di noi’ e lo nominano Demon de la Bravoure
Per Cyrano, del resto, le occasioni di misurarsi in battaglia non mancano – un po’ la gente lo percula volentieri per via del naso, un po’ lui è uno che non le manda a dire.

La carriera militare sembra spalancata ma nel 1640, durante un assedio, per poco non ci rimane con la gola aperta. Si congeda quindi dai moschettieri per dedicarsi interamente alla drammaturgia, concedendosi giusto qualche pausa per dilapidare la fortuna ereditata dal padre.


"Vi farò grazia di una morte squisita."

Nello periodo in cui il cardinale Mazzarino si becca sulla capoccia la grana della Fronda, con mezza cittadinanza in armi e Parigi sotto assedio, l’imperturbabile Cyrano porta a termine il suo primo romanzo: Gli stati e gli imperi della Luna – una bomba di fantascienza ante-litteram, a metà via fra Sentry di Fredric Brown e la Storia Vera di Luciano (ne abbiamo parlato qui). 

Tutto inizia da una serata alcolica con quattro amici. Sulla via del paninaro a qualcuno parte la sbronza poetica: si finisce a parlare proprio della luna. Quant’è bella, quant’è cara. Ma secondo te com’è fatta veramente. Ah per me dev’essere il sole che ci sbircia da un buco nel cielo. Secondo me invece è lo stenditoio di Artemide. 

- No ragazzi non ci siamo. Guardate che loro sono come noi.
- ‘zzo stai a dì, Cyrano.
- Forse per noi la Luna è la luna, ma per loro la luna è la Terra. Capite?
- MA LORO CHI.
- Cioè tu davvero pensi che siamo soli in questo popò di universo?
- Mi sa che ne hai presa troppa, Cyrano.



Punto nell’orgoglio, Cyrano decide che l’unico modo di dimostrare la propria tesi è raccogliere prove sul territorio. Pronti via, si va sulla luna.

Sì ok, ma come?

Metodo n.1: La mongolfiera de noartri – Cyrano si sveglia presto al mattino per raccogliere la rugiada, riempie una caterva di ampolle poi esce al sole e aspetta che la rugiada evaporando lo spinga verso l’alto.
Geniale, eh?


Contrariamente a tutte le aspettative e a tutte le leggi della fisica, il piano funziona fin troppo bene. Tanto che l’aspirante uomo-dirigibile deve sbarazzarsi di qualche bottiglia per ridiscendere in... Canada. Arrestato, rimpatriato, tutto da rifare.
Ma Cyrano è uno tenace e non si dà per vinto, tanto che nel giro di qualche giorno ha pronto un nuovo infallibile piano.

Metodo n.2: La pomata magnetica della nonna – secondo una vecchia credenza popolare, la luna calante risucchierebbe il midollo degli animali (dafaq?). Cyrano si spalma ben bene di midollo di bue e si libra nel cielo come un palloncino di elio (ignorando le bestemmie di Isacco Newton a terra).
Quello che non ha calcolato è che arrivato a metà strada la gravità si inverte. Invece che salire e delicatamente posarsi sulla superficie del satellite, Cyrano precipita come un sacco di patate senza paracadute e si spiaccica su un albero lunare.




Cyrano si tasta per verificare i danni.
La testa c’è.
Le gambe ci sono.
Le chiappe pure.
Nemmeno una costola rotta, miracolo.

Non è un modo di dire. Cyrano è infatti piovuto nel Giardino dell’Eden dritto sull’Albero della Vita, che non solo ripristina la barra degli HP ma lo ringiovanisce pure di quattordici anni.
Sano e sbarbato, comincia a guardarsi in giro. Dopo un lungo vagabondare nel più bucolico dei deserti, si imbatte in un vecchio barbuto. È il profeta Elia, ammesso al cielo per volontà del Signore. Il quale tuttavia non si è preoccupato di fornirgli nemmeno una scala a pioli, sicché il vecchio profeta ha dovuto ingegnarsi da sé. Come? Ma naturalmente grazie al mitico...

...Metodo n.3: Il magnete di Paperoga – equipaggiamento: una potente calamita e una carretta di ferro.
Istruzioni: a) salire sulla carretta, b) lanciare in alto la calamita, c) aspettare che la carretta salga verso la calamita, d) riprendere nonché e) rilanciare la calamita, f) proseguire così fino alla luna.

Appurata la comune simpatia per le leggi delle fisica, Cyrano ed Elia proseguono discorrendo amabilmente di faccende teologiche. 

Cinque minuti dopo Cyrano viene scortato dalla sicurezza fuori dal Giardino dell’Eden.



Ma santi e profeti non sono gli unici abitanti della luna. Ci sono anche degli strani umanoidi quadrupedi che trovano lo straniero, lo catturano e lo portano dal magistrato.

- Che cosa sarebbe, questo?
- Sembra un uomo.
- Ma va là, non vedi che è bipede.
- Sì fa un po’ schifo.
- Però che bel naso.
- Per me è una bestia esotica.
- Sei sicuro?
- La regina ne ha un esemplare uguale, un maschio.
- Allora questo dev’essere la femmina.

Senza tanti complimenti il prigioniero viene condotto al palazzo della regina, dove incontra ‘l’esemplare maschio’. Cyrano non crede ai propri occhi.

- Ma va là un altro essere umano.
- Ma va là pensavo di essere l’unico.
- Sono arrivato ieri, ma come ci sei arrivato qui.
- Mi ha trasportato uno stormo di uccelli.
- Geniale. Io ho usato il vecchio trucco della pomata di bove.
- Mirabile. Pensa che questi mi credono una scimmia.
- Io invece sarei una femmina di scimmia.
- Ah siamo a posto.

Arrivano i custodi delle scimmie. 

- Cosa stanno dicendo?
- Credono che vogliano farci accoppiare.

 


Lo vogliono e lo possono. Mentre Cyrano passa un brutto quarto d’ora, noi approfittiamone per qualche notazione culturale sul popolo dei seleniti, secondo ciò che l’autore osserva nell’opera.

I seleniti parlano con la musica, i loro nomi si scrivono con le note su un pentagramma e usano come valuta i versi poetici: una sestina per una cena all’osteria, un sonetto per otto giorni di baldoria, e “se c’è qualcuno che muore di fame, è solo perché è un asino, mentre le persone di spirito hanno sempre la pancia piena”.

La sera prima di coricarsi leggono... gli audiolibri: “Libri per i quali gli occhi sono inutili e le orecchie indispensabili”. Si tratta di scatole piene di meccanismi tipo orologio che si possono portare in giro a mo’ di walkman. Per leggere basta girare l’ago al capitolo che interessa et voilà! Ecco diffondersi “suoni come dalla bocca di un uomo o da uno strumento musicale.” 

Fra i seleniti inoltre il naso grande è un segno di bellezza e tutti ce l’hanno enorme, tanto che si nutrono di odori. Anche da loro peraltro esiste una specie perversa di pseudo-fruttariani: gente che si nutre (o meglio, odora) solo cose morte da sole, per paura che il troppo snosare possa recar loro dolore.

Infine, i vecchi devono rispettare i giovani e non viceversa: "Avreste certo pena a credere che Ercole, Achille, Epaminonda, Alessandro e Cesare, che son quasi tutti morti prima dei quarant'anni [come ahinoi accadrà al buon Cyrano, n.d.r.], siano da disdegnare e che un vecchio rimbambito, nel quale il sole ha maturato il raccolto novanta volte, sia da incensare”.

"'Vecchio' a CHI?"

Coerentemente, un criminale è condannato a “morire di morte naturale e nel suo letto, e inoltre ad essere seppellito dopo morto”. Nulla di più umiliante che sparire sottoterra divorati dai vermi. La gente per bene si fa cremare, così la sua forza vitale risale alle stelle. Oppure quando decide di averne abbastanza dà una grande festa e si fa divorare dagli amici, che poi si accoppiano alla libertina: così se nasce un pargolo sanno che è il loro amico che si è reincarnato.

Quanto a Cyrano, durante la sua ‘gravidanza’ ha modo di imparare la lingua dei seleniti. Inevitabile che i filosofi locali comincino a speculare. Sarà dotato di ragione oppure no? È veramente una scimmia? O forse un pappagallo? O magari uno struzzo?

- No ragazzi non ci siamo. Guardate che noi siamo come voi.
- ‘zzo stai a dì, scimmia.
- Forse per voi la Luna è la terra, ma per noi la Terra è la terra. Capite?
- MA NOI CHI.
- Cioè tu davvero pensi che siete soli in questo popò di universo?





A differenza dei suoi amici beoni, i seleniti la prendono sul personale e trascinano Cyrano davanti al tribunale dell’Inquisizione lunare. Se il poveretto evita il peggio lo deve solo grazie all’intervento del suo protettore, un tipo solare – nel vero senso della parola, in quanto viene effettivamente dal sole – che in passato si era già impiegato come demone personale di Socrate.

E a Gli stati e gli imperi del Sole avrebbe dovuto essere dedicato il secondo romanzo di Cyrano – o meglio un secondo viaggio nel fantastico e un ulteriore bonario cricco sulle palle dei fautori dell’antropocentrismo ottuso, geocentrico, anti-galileiano. L’atteso sequel, ahinoi, rimase però incompiuto anche a causa della precoce dipartita dell’autore.

Cyrano muore nel 1655, a trentasei anni, forse in seguito a un colpo alla testa. Le circostanze particolari sono avvolte nel mistero, e fra i suoi innumerevoli nemici molti tentarono di attribuirsi la gloria del colpo fatale. 

Ma la gloria autentica appartiene solo a lui, a Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac. Soddisfazioni letterarie non ha avute in vita quante meritava – non ha nemmeno fatto in tempo a vedere pubblicato il romanzo lunare – e certo il suo cuore non ha sopportato meno pene di nessun altro. Nondimeno, la storia di quei suoi nemici è caduta nell’oblio – il suo nome è leggenda.



"Sai dirmi in che maniera? Andar sotto padrone? Cercarmi un protettore? E come oscura edera che ha l'albero tutore, e s'appoggia arrampicandosi e leccandogli la scorza, potrei salir da furbo, e non invece a forza? No, grazie. Dedicare in ogni scartafaccio dei versi ai finanzieri? Mutarsi in un pagliaccio, sperando di vedere, sul labbro di un ministro, lo spasmo di un sorriso un po' men che sinistro? No, grazie. Banchettare ogni giorno da un pidocchio? Avere il ventre logoro dalle marce, e il ginocchio più prestamente sporco nel punto in cui si flette? Rendermi primatista in dorso-piroette? No, grazie. Riconoscere talento ai dozzinali? Plasmarsi su ogni critica che appare sui giornali? E vivere sognando: "Oh, sento già il mio stile percorrere le bozze del Mercurio mensile"? No, grazie! Fare calcoli? Tremare? Arrovellarsi? Preferire una visita a un paio di versi sparsi? Stendere delle suppliche? O farsi commendare? No, grazie. No, grazie! No, grazie!!
Ma cantare, sognare, ridere. Splendido. Da solo, in libertà. Aver l'occhio sicuro, la voce in chiarità. Mettersi se ti va di sghimbescio il cappello, per un sì, per un no, fare un'ode o fare un duello. Fantasticare, a caccia non di gloria o di fortuna, su un viaggio a cui si pensa, sulla luna! Se poi viene il trionfo, ebbene fatti suoi, ma mai, mai diventare un "come tu mi vuoi". E se pur quercia o tiglio davvero non si è… se vuoi proprio non alto, ma farcela da sé."




Fonte:
Cyrano de Bergerac, L’altro mondo, ovvero Gli stati e gli imperi della Luna, a cura di Vitiello P. (1984, Liguori Editore: Napoli)



giovedì 5 marzo 2015

CLASSIC BADASS: Baldus




M’è venuta la fantasia più che fantastica
Di cantare con le Muse ciccione la storia di Baldo.
Per la sua fama altisonante e il nome gagliardo
La terra trema e il Baratro
Si caga addosso dalla paura.

No, non abbiamo esagerato con il grog.

O forse sì, ma non è questo il punto.

Il punto è che i versi di cui sopra sono stati vergati nel 1517 dalla mano di un monaco benedettino (!) venticinquenne, di nome Teofilo Folengo, o se preferite Merlin Coccaio, oppure Limerno Pitocco.

Il suo nome di battesimo comunque era Girolamo.

Il fatto che non siano in molti a parlare di Teo Folengo non deve stupire. Fra i pochi a ricordarsi di lui troviamo Rabelais, Erasmo da Rotterdam e Giordano Bruno (be’, scusate se è poco). Sappiamo che si è girato i monasteri di mezza Italia, che aveva un debole per la bella vita e il gentil sesso, che somigliava in modo inquietante alla buon'anima di Margherita Hack, ma soprattutto che se ai suoi tempi fosse uscito D&D sarebbe stato un eccezionale dungeon master.


"Non me somiglia pe niente."

Possiamo facilmente immaginare lo scapestrato Teo nella sua cella monastica, mentre nasconde sotto la Bibbia la sua copia del Morgante di Gigi Pulci. Non c’è dubbio che il suo personaggio preferito sia quel pazzo criminale di Margutte. L’unico rammarico è che il Pulci lo faccia durare così poco.

O forse no.

In un impeto di fanboy-rage Teo decide di donare a Margutte una seconda vita, cucendogli addosso uno dei personaggi più bastardi di tutti i tempi – il briccone Cingar – co-protagonista di uno dei capolavori dimenticati del rinascimento: il Baldus.

Scopiazzatura?
Blasfemia?
Epic fail?

Nel 99,999998% dei casi diremmo di sì. Ma il nostro Teo è nato per l’eccezione.




C’è Atlantide, c’è Troia, c’è la Terra Santa, c’è Mordor, e per ultima, ma non meno importante, c’è Cipada in provincia di Mantova.

Alto medioevo. Una coppia di pellegrini bussa alla porta di Berto Panada, una buon’anima di contadino che non esita ad accoglierli e sfamarli. Grati per l’accoglienza, i pellegrini rivelano la loro identità: sono ser Guido di Francia e la principessa Baldovina, in fuga d’amore.

Berto, cuore tenero, nota che la principessa è in stato interessante, sicché offre ai due innamorati la sua ospitalità. Ser Guido accetta per metà: lascia la moglie alle cure del buon contadino, mentre lui parte per la Terra Santa in cerca di un regno da conquistare.

Il tempo passa, Baldovina partorisce un bel bimbo che chiamerà Baldus. Baldus è l’emblema della salute. Viene al mondo ridendo, brandisce bastoni come spade, canne come lance, ancora in tenera età impara a leggere (e subito diventa fan dei poemi epici), a sei anni ne dimostra dodici. È bello, forte, intelligente da fare schifo.

Va da sé che tutti gli altri bambini del paese lo odiano a morte. Un bel giorno si coalizzano e tentano di suonargliele.



La rissa fra marmocchi degenera, Baldus non si tiene, ci scappano morti e feriti. Alla fine devono intervenire le guardie che dopo una lotta estenuante riescono ad arrestare il ragazzetto scatenato.

L’adolescenza di Baldus sarà tutta così. Furfante, scavezzacollo, spesso sfrontato, sempre gagliardo, diventa ben presto il capo di una gang giovanile, che sarà anche il suo party per il resto della campagn... pardon, opera:

Il gigante Fracasso, il quale “con due dita sradica una quercia secolare, con la stessa facilità con cui i contadini sradicano i porri”.

Il canuomo Falchetto, che “aveva forma di uomo fino al culo, di lì in poi, fino alla coda, aveva forma di cane”.

E soprattutto lui, il preferito delle mamme – Cingar: “scampaforca, farabutto, ladro, sempre pronto alle beffe, mala guida per il viandante: a chi gli domandava la strada giusta per il viaggio, indicava quella sbagliata.” Ogni volta che finisce sulla forca arriva sempre Baldo a salvarlo; non lascia frutti nei frutteti, non verze negli orti, non galline nei pollai.



Quando Baldus verrà rinchiuso in una segreta a seguito di un complotto del fratellastro Zambello, sarà Cingar a trarlo d’impiccio. E a vendicarlo, naturalmente.

La vendetta di Cingar rappresenta uno degli apici del delirio coprolalico di Teo Folengo e merita un discorso a parte.

Tutto comincia con Zambello che un bel giorno decide di manifestare la sua disistima per Berta, moglie di Baldus, prendendo l’abitudine di lasciarle ogni mattina un ricordino marrone fumante davanti all’uscio di casa. Cingar fiuta il colpevole e subito ordisce un contro-inganno. Raccoglie i corpi del reato in un vaso, li ricopre di uno spesso strato di miele e li porta al mercato. Qui aspetta Zambello al varco, ringraziandolo per il prezioso regalo che ogni mattina lascia davanti alla casa della gentildonna.



Zambello ci appare scettico:

Mi faresti buttar via ben in fretta le mutande
Se credessi che tu puoi vender quel che io caco.

“Non ci credi?”, risponde Cingar. “Te lo dimostro subito.”
Entra in una drogheria e domanda: “SALVE LE INTERESSA QUESTA MERDA di api”.

‘Di api’ lo dice piano, e nel brusio della folla Zambello non sente.

Lo speziale puccia il dito nel miele, lo pilucca ben bene, affare fatto. Cingar gli lascia tutto il vaso.
Zambello è senza parole. Il giorno dopo torna dal mercante tutto bucolico, con un bel catino fumante: “MERDA, MERDA BUONA! MERDA CACATA FRESCA!”

Lo speziale, intanto, ha scoperto l’inganno.



Dopo un’evasione in grande stile dalle segrete di Mantova, Baldus e Cingar insieme a una ciurma di nuovi compagni s’imbarcano per la Turchia. Affrontano tempeste devastanti, pirati sanguinari, l’isola-balena di Pandraga...

Ok, qua forse conviene rallentare un attimo.

L’isola-balena della strega meretrice Pandraga è a tutti gli effetti una balena, che a suo tempo la fattucchiera ha incantato per farla stare ferma, mentre uno stuolo di demoni la caricava di terreno, alberi, fiumi e montagne.
A lungo Pandraga è sfuggita alla Protezione Animali, ma quando arriva Baldus scatta inevitabile la battaglia senza quartiere.

La strega scatena la potenza di tutti i demoni e di un terribile Moloch. Il fragilotto Cingar si trova a mal partito e per poco non ci lascia le penne. Riesce a salvarsi solo perché tira un diciotto.

No, non è una metafora. Sono le parole di Teo Folengo: “...Allora tirò Cingar un diciotto.

"O dovevo tirare il d20?"

Lo scontro infuria e i diavoli prendono una quantità tale di mazzate da richiamare Lucifero stesso, che in groppa alla sua mula sale dalle profondità dell'Abisso per dare un’occhiata al campo di battaglia, prima di essere ricacciato pure lui a colpi di crocifisso.

Il viaggio prosegue in una grotta oscura abitata da un drago. È buio pesto, e per evitare di prendersi a sberle fra loro i nostri eroi decidono di lasciare lo scontro ai cavalli, calorosamente incitati alla battaglia.

I cavalli se la cavano benone: il drago è sistemato, si prosegue. Dalle profondità della grotta appare Merlino – non il mago di Artù, ma il dungeon mast... ehm, l’autore in persona: Merlin Coccaio. Egli rivela a Baldus e i suoi che è loro compito scendere nell’Inferno e sconfiggere il male. Nulla di meno, nulla di più.

Dopo essersi riforniti dell’opportuno equipaggiamento leggendario (le armi di Ettore, Achille e Orlando, l’elmo di Nembrod e il battacchio +5 di Morgante) (ottomila chili di battacchio, apprendiamo), i nostri si avventurano fino alle sorgenti del Nilo, maltrattano il vecchio dio del fiume, si rifocillano di vipere marce e drago arrosto all’osteria dell’Inferno, infine raggiungono le rive dell’Acheronte.

Qua trovano una folla di anime in attesa di essere trasportate sull’altra riva. C’è traffico, si formano code, guardi c’ero prima io, ma lei lo ha preso il ticket, oh ma che è sta puzza di ascella, dove diavolo si è cacciato il traghettatore.
In effetti Caronte non c’è: è andato a prendere l’ennesimo due di picche dalla Furia Tisifone, di cui è follemente innamorato.



La puzza dilaga, il gigante Fracasso si stizzisce. Supera l’Acheronte con un balzo, afferra Caronte per la collottola e lo scaraventa sull’altra riva, mandandogli dietro la barca con un calcio.

Passato il fiume, i nostri sprofondano nella casa della Fantasia: “piena di un rumore silenzioso o di un tacito strepito, di un moto immobile, di un ordine disordinato, di una norma senza regola e arte.

In questo delirio psichedelico di massime epicuree, dialettica tomistica e sogni di Alberto Magno, Baldus viene avvicinato da uno strano giullare, che lo conduce fino a una zucca grande come una montagna, dimora di poeti, cantori, astrologi... e barbieri stipendiati da Plutone, esperti nell’arte di cavare i denti ai cantastorie – uno per ogni bugia. E più denti sono strappati, più ne ricrescono.

E qui, con una mossa di poetica crudeltà, o forse con la pigrizia specifica del dungeon master, Teo Folengo si ferma.

La Zucca è la mia patria, occorre che qui io perda i denti,
Tanti quante le menzogne che ho messo nel libro immenso.
Baldo, ti saluto. Ti lascio finalmente all’opera di un altro...



L’edizione definitiva del Baldus uscirà a metà degli anni ’30 del Cinquecento. Venticinque canti in latino maccheronico, una lingua che Teo Folengo studia e padroneggia con la stessa dedizione che Tolkien riserva al Sindarin.

Dopo una vita passata alternativamente fra monasteri e gozzoviglia, Teo morirà nel 1547, non ancora cinquantenne, in sospetto di eresia.

Nel 1596 papa Clemente VIII inserirà il Baldus nell’indice dei libri proibiti.

Poco male: noi possiamo giurare di averne vista una copia sul comodino di Crom.

Perdonate se abbiamo riempito di tale e tanta roba le orecchie:
del resto è meglio riempirne l’orecchio piuttosto che la bocca.
State bene!





Fonte:
Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Chiesa M. (2006, UTET: Torino)


mercoledì 25 febbraio 2015

CLASSIC BADASS: Il Morgante (2/2)



Prima tappa di ogni avventura che si rispetti - l’osteria.

Morgante e Margutte chiedono del buon mangiare, l’oste presenta orgoglioso un grosso cappone. I due giganti si scambiano uno sguardo d’intesa, poi scoppiano a ridere: neanche la bustina del purgante è così piccola.

Non vedi tu costui com’egli è grande?”
(… ) Rispose l’oste: “mangi delle ghiande”.


Non è mai una buona idea mandare un gigante a mangiar delle ghiande. Morgante infatti la piglia sul personale ed esibisce il suo poderoso Battacchio +5. L’oste s’affievolisce all’istante, l'arroganza lascia luogo alla più bassa piaggeria, mentre quasi genuflesso si offre di servire agli illustri ospiti una cena da principi. Ma i nostri hanno capito l'antifona e scelgono il self-service.

Il tavolo viene imbandito in cortile, perché a Morgante la taverna sta stretta. In due si sbranano un bue intero, prosciugando barili su barili di vino.

A fine pasto Margutte chiede un formaggino, che ancora gli è rimasto un languore. Ovviamente il languore non si placa neanche dopo che s'è fatto fuori la forma intera, sicché il saccheggio riprende direttamente in cucina. L’oste disgraziato e i suoi servitori cominciano a temere che il conto sarà pagato a suon di bastonate.

-...e un piccolo toast per gustarlo meglio.-

Si fa sera. Dopo la gran taffiata ai giganti cala l’abbiocco. M prima che anche il padrone di casa si ritiri, Margutte lo ferma e lo mette in guardia:

- Scusa Dormi (posso chiamarti Dormi, sì?), devi sapere che purtroppo soffro di una forma grave di sonnambulismo, robe brutte, tu comunque non ti devi preoccupare, tipo se senti dei bussi sui muri è tutto normale, ecco magari evita di gironzolare per l’osteria, sai com’è ogni tanto tiro degli sberloni così a caso, non vorrei prendere per sbaglio la tua faccia bella.

Il Dormi, cioè l’oste, sorride, annuisce e si barrica in camera da letto sprangando la porta con travi e catenacci. Nottetempo Margutte si alza e indisturbato si dà al saccheggio di tutta l’osteria. Fa un bel fagotto, lo carica sul cammello dell’oste e va a svegliare Morgante.

I due si allontanano con l’osteria alle spalle che va a fuoco.

-Vado matto per i piani ben riusciti.-

A lungo i due eroi (?) procedono per luoghi oscuri e disabitati. Dopo qualche giorno terminano le provviste ma poco male. Morgante adocchia da lontano un unicorno che s’abbevera al fiume. Lo chiama con un fischio, una carezza dietro le orecchie e BAM, gli aggiusta una mazzata fra capo e collo che risolve la serata – arrosto di unicorno alle erbette per tutti.
Ricordiamo qui di sfuggita che posate e utensili da cucina sono gentilmente offerti dall'osteria del Dormi, insieme a piccoli simpatici extra come saliera, grattugia e stuzzicadenti. Perché rubare incasso e argenteria può farlo chiunque: Margutte invece è un tipo scrupoloso.

Avendo dato ai bambini che guardano i cartoni animati sbagliati una ragione per piangere, i nostri odono in effetti un flebile lamento che viene di lontano. Cercandone l’origine, trovano una giovinetta dalle vesti stracciate, in catene, sorvegliata da un famelico leone.

Senza fare una piega Morgante si siede sul leone e ascolta la storia triste di Florinetta.


Tale è il nome della fanciulla, la quale dichiara di essere stata rapita sette anni or sono da un ulteriore gigante, Beltramo. Questi la nutre con serpi velenose e ogni volta che torna dalla caccia la prende a cinghiate senza motivo. Nel caso ci fosse ancora dubbio: giganti brava gente.

Mentre Florinetta prosegue nella conta delle proprie sofferenze, sopraggiunge questo Beltramo, con un cinghiale sotto il braccio e un orso in spalla. Lo accompagna il fratello Sperante, che si trascina dietro la carcassa di un drago.

Cioè no scusatemelo. Un drago.

Beltramo non tarda a notare il suo bel leone stecchito sotto il sedere di Morgante e la prende malino. Ne nasce un vivace battibecco, si alzano le voci, volano insulti. Poi Sperante vince il tiro sull’iniziativa e sferra un poderoso colpo di drago in faccia a Morgante.

Non ebbe pazienza a ciò Sperante:
riprese meglio il drago per la coda
ed una gran dragata diè a Morgante.

Alcuni esegeti sostengono che il drago non fosse veramente morto ma stesse solo fingendo per la propria salvaguardia. Gli stessi ritengono che, dopo la brutta esperienza, il rettile sia tornato a Skyrim.


Comechessia, se non era una buona idea invitare Morgante a mangiare ghiande, figuriamoci prenderlo a dragate sulla ghigna. Il gigante perde pazienza e serenità insieme, e si scaglia su Sperante staccandogli naso e orecchie a morsi.
Intanto il vecchio Holyfield a casa si consola pensando che tutto sommato quella volta contro Tyson gli è andata pure bene.

Nel frattempo Beltramo va accanendosi a bastonate sul buon (?) Margutte, che ne evita qualcuna ma perlopiù le prende. Una particolarmente accanita lo coglie pieno in fronte e lo stramazza al suolo lungo disteso. Beltramo si prepara a sferrare il colpo di grazia, ma Margutte non è ancora battuto. Raccoglie le forze e sferra una tallonata da terra con tanto di sperone, che prende l’aggressore alla gola e gli appiccica la lingua al palato. Mentre Beltramo cerca di riordinarsi la cavità orale, Margutte col conteggio a nove si rialza e con un fendente ben assestato divide il cranio del dirimpettaio a metà.

Torniamo all’altro ring. Nel pieno della lotta Morgante e Sperante ruzzolano a valanga per una scarpata. Il primo a rialzarsi è Morgante, che senza tanti complimenti raccoglie la testa dell’avversario e la scardina contro un masso.

Good game, well played.


Potremmo proseguire ancora a lungo nel rendiconto dell'avventura di Morgante e Margutte, ma non vogliamo togliere al lettore il piacere di sfogliare le pagine vergate di suo pugno dal buon Gigi Pulci. Il quale, dopo la prima edizione del 1478, ne vergò una seconda nel 1483, integrandola con cinque ulteriori cantari di tono più serio, in cui si racconta la fine epica e amara di Orlando.

Un anno più tardi il buon Gigi, in viaggio verso Venezia, si ammalò e giunse invece alla tomba. Gli furono negati i sacramenti e fu sepolto in terra sconsacrata come eretico.

Poco male. A un temperamento come quello suo, crediamo, dei sacramenti interessava poco. L'immortalità che gli spetta è quella delle lettere.

Oggi potremmo essere tentati di definire il Morgante come un'ideale spin-off della clamorosa duologia dell'Orlando Innamorato e (soprattutto) Furioso - ma  saremmo due volte in errore.

Primo, perché il Gigi pubblicò il suo capolavoro quattro anni prima del Boiardo e oltre cinquanta prima dell'Ariosto - scusate se è poco.

Secondo, perché per Crom! - Morgante il gigante non fu mai secondo a nessuno.



mercoledì 18 febbraio 2015

CLASSIC BADASS: Il Morgante (1/2)


Pagania, VIII secolo – il valoroso paladino Orlando combatte contro tre giganti musulmani che hanno assalito un monastero cristiano. Abbatte i primi due, risparmia il terzo, lo converte al cristianesimo e lo prende con sé come scudiero con il nome di Morgante.

Segnatevi questo nome, mentre ci accingiamo a un salto nel tempo di settecento anni.

1478, Firenze – tempi duri per i vitaioli. Alla corte dei Medici vanno di moda i filosofi platonici, gente d’accademia che mangia sano, beve poco e studia duro. Lucrezia Tornabuoni, madre del magnifico Lorenzo e bigotta patentata, non vede l’ora di rilanciare nei salotti il modello splendido e pettinato del paladino carolingio.
Da qualche tempo ha commissionato a uno dei letterati di corte la composizione di un poema epico cavalleresco. Il letterato se l’è presa comoda (diciassette anni, in effetti), ma ora finalmente l’opera è completa. Edizione prima, ventitré cantari in ottava rima. Con mani tremanti di eccitazione, Lucrezia si accinge alla lettura...


Mentre i servitori accorrono per portarle i sali, il letterato di cui sopra se la sghignazza in un angolo della stanza. Il suo nome è Luigi Pulci. Bazzica la corte dai primi anni ’60: quarantenne impenitente, godereccio e crapulone, sempre pronto alla battuta, preferibilmente sporca, il Pulci è stato compagno di bagordi del giovane Lorenzo prima che diventasse Magnifico, ma soprattutto prima che arrivassero i platonici a rovinare tutto.

Ora i tempi sono cambiati: lui no.

-Ritratto di Luigi Pulci nelle Cappelle Medicee a sinis... no cioè a des... vabbè.-

Emarginato dalla corte, dimenticato dal vecchio amico, Gigi Pulci aveva in Lucrezia l’occasione del riscatto: bisognava solo tenere a bada i gusti faceti, le velleità dissacranti, lo stile mordace. Per la celebrità e il successo ne valeva la pena, no?

Certo che no.

Con la penna in mano Pulci svariona già al canto primo e subito enuncia la sua definizione di Epico: burle sguaiate, smargiassate abbomba e botte da orbi.

Gli eroi del ciclo carolingio non ne escono bene. Carlo Magno è un vecchio rimbambito che tutto perdona. Il cavaliere Rinaldo si ubriaca con la cumpa prima di ruzzolare in battaglia e quando un incantesimo lo rende invisibile ne approfitta per tirare ogni sorta di scherzo bracalone alla povera Luciana. Solo Astarotte, erudito e tollerante, fa tutto sommato una figura dignitosa – peccato sia un demone dell’abisso.

Ma sopra tutti c’è lui, l’eroe – Morgante.


“Ghiottone, millantatore, ignorante di poca malizia, ma buono, fedele e coraggioso”. La sua arma preferita è un Batacchio di Campana +5. Dove c’è da menar le mani sta sempre in prima fila. Se una balena tenta di rovesciare la sua nave, lui la abbatte a pugni (e in Cimmeria prendono appunti). Fin dalla prima edizione diventa il beniamino di pubblico e critica, tanto che il poema finisce per prendere il suo nome a furor di popolo.

La storia di Morgante è un’epopea di scazzottate e peripezie rocambolesche. Lo sballo assoluto arriva nei cantari diciotto e diciannove, quando Morgante si imbatte in un gigante-nano (lolwut) di nome Margutte. I due formeranno uno dei party meglio riusciti di tutti i tempi - un bromance erede della gloriosa tradizione dei semidei babilonesi Gilgamesh ed Enkidu e ideale precursore della gloriosa tradizione dei semidei italici Bud Spencer e Terence Hill.


E pensare che tutto nasce da un incontro casuale, con l’ignaro Morgante che ferma Margutte per chiedere la strada (“Scusi, per la Siria sempre dritto?”). Margutte è in vena di chiacchiere. Vista la mole del pellegrino spiega che anche lui da bambino voleva diventare un gigante, poi a metà strada si è pentito e quindi è rimasto mezzo-gigante.


Si passa poi a discorrere delle rispettive religioni. Quando Morgante riferisce della sua conversione, Margutte rilancia vantandosi di cambiar fede come cambia mutande: oggi Maometto, domani Gesù, poi Budda, poi il budino, la trinità della torta, del tortello e del fegatello, ma sempre e soprattutto la brocca di vino.


Morgante ascolta ammirato, Margutte ci prende gusto: comincia così a enumerare tutte le nefandezze compiute nella sua vita. 


Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita 

Ha giocato d’azzardo, ha fatto il baro, l’adulatore, l’imbroglione, l’oste (ma solo perché così il vino gli costava meno), una serie di piccoli lavoretti di quelli che di solito finisci sul rogo, o in carcere quando va bene, anche ai danni di amici e parenti: “sul lavoro non si guarda in faccia a nessuno”. Ha bazzicato nel mondo della prostituzione con sfruttamento e con godimento (quando entra in un convento da cinque suore ne escono sei); è esperto nell’arte dello scasso e della rapina, sia in grande stile sia alla buona, tipo la cassetta delle offerte, i crocifissi e i calici in chiesa. Ruba il bestiame, il bucato steso dalle massaie, i mazzi di fiori lasciati in pegno tra amanti. Ogni tanto ha ammazzato della gente – ora non lo fa più – beninteso la voglia c’è sempre, ma è un’attività poco redditizia. Ha contraffatto libri, è uno spergiuro, bestemmiatore nato, afferma sempre ciò che è falso.
Il sogno nel cassetto?

Vorrei veder più fuoco ch’acqua o terra,
e ‘l mondo e ‘l cielo in peste e ‘n fame e ‘n guerra.


Una sola cosa il buon Margutte non ha mai commesso: il tradimento.

Morgante tira un sospiro di sollievo. “Ah guarda io proprio i traditori non li sopporto. In fondo sei una brava persona. Ti va di accompagnarmi in Siria?”

Così comincia l'avventura dei giganti.





Fonti:
- Luigi Pulci, Morgante, a cura di Dego G. (2013, BUR: Milano).
- Luigi Pulci, Morgante e opere minori, a cura di Greco A. (2006, UTET: Torino).