Pagania, VIII secolo – il valoroso paladino Orlando combatte contro tre giganti musulmani che hanno assalito un monastero cristiano. Abbatte i primi due, risparmia il terzo, lo converte al cristianesimo e lo prende con sé come scudiero con il nome di Morgante.
Segnatevi questo nome, mentre ci accingiamo a un salto nel tempo di settecento anni.
1478, Firenze – tempi duri per i vitaioli. Alla corte dei Medici vanno di moda i filosofi platonici, gente d’accademia che mangia sano, beve poco e studia duro. Lucrezia Tornabuoni, madre del magnifico Lorenzo e bigotta patentata, non vede l’ora di rilanciare nei salotti il modello splendido e pettinato del paladino carolingio.
Da qualche tempo ha commissionato a uno dei letterati di corte la composizione di un poema epico cavalleresco. Il letterato se l’è presa comoda (diciassette anni, in effetti), ma ora finalmente l’opera è completa. Edizione prima, ventitré cantari in ottava rima. Con mani tremanti di eccitazione, Lucrezia si accinge alla lettura...
Mentre i servitori accorrono per portarle i sali, il letterato di cui sopra se la sghignazza in un angolo della stanza. Il suo nome è Luigi Pulci. Bazzica la corte dai primi anni ’60: quarantenne impenitente, godereccio e crapulone, sempre pronto alla battuta, preferibilmente sporca, il Pulci è stato compagno di bagordi del giovane Lorenzo prima che diventasse Magnifico, ma soprattutto prima che arrivassero i platonici a rovinare tutto.
Ora i tempi sono cambiati: lui no.
-Ritratto di Luigi Pulci nelle Cappelle Medicee a sinis... no cioè a des... vabbè.-
Emarginato dalla corte, dimenticato dal vecchio amico, Gigi Pulci aveva in Lucrezia l’occasione del riscatto: bisognava solo tenere a bada i gusti faceti, le velleità dissacranti, lo stile mordace. Per la celebrità e il successo ne valeva la pena, no?
Certo che no.
Con la penna in mano Pulci svariona già al canto primo e subito enuncia la sua definizione di Epico: burle sguaiate, smargiassate abbomba e botte da orbi.
Gli eroi del ciclo carolingio non ne escono bene. Carlo Magno è un vecchio rimbambito che tutto perdona. Il cavaliere Rinaldo si ubriaca con la cumpa prima di ruzzolare in battaglia e quando un incantesimo lo rende invisibile ne approfitta per tirare ogni sorta di scherzo bracalone alla povera Luciana. Solo Astarotte, erudito e tollerante, fa tutto sommato una figura dignitosa – peccato sia un demone dell’abisso.
“Ghiottone, millantatore, ignorante di poca malizia, ma buono, fedele e coraggioso”. La sua arma preferita è un Batacchio di Campana +5. Dove c’è da menar le mani sta sempre in prima fila. Se una balena tenta di rovesciare la sua nave, lui la abbatte a pugni (e in Cimmeria prendono appunti). Fin dalla prima edizione diventa il beniamino di pubblico e critica, tanto che il poema finisce per prendere il suo nome a furor di popolo.
La storia di Morgante è un’epopea di scazzottate e peripezie rocambolesche. Lo sballo assoluto arriva nei cantari diciotto e diciannove, quando Morgante si imbatte in un gigante-nano (lolwut) di nome Margutte. I due formeranno uno dei party meglio riusciti di tutti i tempi - un bromance erede della gloriosa tradizione dei semidei babilonesi Gilgamesh ed Enkidu e ideale precursore della gloriosa tradizione dei semidei italici Bud Spencer e Terence Hill.
E pensare che tutto nasce da un incontro casuale, con l’ignaro Morgante che ferma Margutte per chiedere la strada (“Scusi, per la Siria sempre dritto?”). Margutte è in vena di chiacchiere. Vista la mole del pellegrino spiega che anche lui da bambino voleva diventare un gigante, poi a metà strada si è pentito e quindi è rimasto mezzo-gigante.
Si passa poi a discorrere delle rispettive religioni. Quando Morgante riferisce della sua conversione, Margutte rilancia vantandosi di cambiar fede come cambia mutande: oggi Maometto, domani Gesù, poi Budda, poi il budino, la trinità della torta, del tortello e del fegatello, ma sempre e soprattutto la brocca di vino.
Morgante ascolta ammirato, Margutte ci prende gusto: comincia così a enumerare tutte le nefandezze compiute nella sua vita.
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita
Ha giocato d’azzardo, ha fatto il baro, l’adulatore, l’imbroglione, l’oste (ma solo perché così il vino gli costava meno), una serie di piccoli lavoretti di quelli che di solito finisci sul rogo, o in carcere quando va bene, anche ai danni di amici e parenti: “sul lavoro non si guarda in faccia a nessuno”. Ha bazzicato nel mondo della prostituzione con sfruttamento e con godimento (quando entra in un convento da cinque suore ne escono sei); è esperto nell’arte dello scasso e della rapina, sia in grande stile sia alla buona, tipo la cassetta delle offerte, i crocifissi e i calici in chiesa. Ruba il bestiame, il bucato steso dalle massaie, i mazzi di fiori lasciati in pegno tra amanti. Ogni tanto ha ammazzato della gente – ora non lo fa più – beninteso la voglia c’è sempre, ma è un’attività poco redditizia. Ha contraffatto libri, è uno spergiuro, bestemmiatore nato, afferma sempre ciò che è falso.
Il sogno nel cassetto?
Vorrei veder più fuoco ch’acqua o terra,
e ‘l mondo e ‘l cielo in peste e ‘n fame e ‘n guerra.
Una sola cosa il buon Margutte non ha mai commesso: il tradimento.
Morgante tira un sospiro di sollievo. “Ah guarda io proprio i traditori non li sopporto. In fondo sei una brava persona. Ti va di accompagnarmi in Siria?”
Così comincia l'avventura dei giganti.
Fonti:
- Luigi Pulci, Morgante, a cura di Dego G. (2013, BUR: Milano).
- Luigi Pulci, Morgante e opere minori, a cura di Greco A. (2006, UTET: Torino).
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