mercoledì 25 febbraio 2015

CLASSIC BADASS: Il Morgante (2/2)



Prima tappa di ogni avventura che si rispetti - l’osteria.

Morgante e Margutte chiedono del buon mangiare, l’oste presenta orgoglioso un grosso cappone. I due giganti si scambiano uno sguardo d’intesa, poi scoppiano a ridere: neanche la bustina del purgante è così piccola.

Non vedi tu costui com’egli è grande?”
(… ) Rispose l’oste: “mangi delle ghiande”.


Non è mai una buona idea mandare un gigante a mangiar delle ghiande. Morgante infatti la piglia sul personale ed esibisce il suo poderoso Battacchio +5. L’oste s’affievolisce all’istante, l'arroganza lascia luogo alla più bassa piaggeria, mentre quasi genuflesso si offre di servire agli illustri ospiti una cena da principi. Ma i nostri hanno capito l'antifona e scelgono il self-service.

Il tavolo viene imbandito in cortile, perché a Morgante la taverna sta stretta. In due si sbranano un bue intero, prosciugando barili su barili di vino.

A fine pasto Margutte chiede un formaggino, che ancora gli è rimasto un languore. Ovviamente il languore non si placa neanche dopo che s'è fatto fuori la forma intera, sicché il saccheggio riprende direttamente in cucina. L’oste disgraziato e i suoi servitori cominciano a temere che il conto sarà pagato a suon di bastonate.

-...e un piccolo toast per gustarlo meglio.-

Si fa sera. Dopo la gran taffiata ai giganti cala l’abbiocco. M prima che anche il padrone di casa si ritiri, Margutte lo ferma e lo mette in guardia:

- Scusa Dormi (posso chiamarti Dormi, sì?), devi sapere che purtroppo soffro di una forma grave di sonnambulismo, robe brutte, tu comunque non ti devi preoccupare, tipo se senti dei bussi sui muri è tutto normale, ecco magari evita di gironzolare per l’osteria, sai com’è ogni tanto tiro degli sberloni così a caso, non vorrei prendere per sbaglio la tua faccia bella.

Il Dormi, cioè l’oste, sorride, annuisce e si barrica in camera da letto sprangando la porta con travi e catenacci. Nottetempo Margutte si alza e indisturbato si dà al saccheggio di tutta l’osteria. Fa un bel fagotto, lo carica sul cammello dell’oste e va a svegliare Morgante.

I due si allontanano con l’osteria alle spalle che va a fuoco.

-Vado matto per i piani ben riusciti.-

A lungo i due eroi (?) procedono per luoghi oscuri e disabitati. Dopo qualche giorno terminano le provviste ma poco male. Morgante adocchia da lontano un unicorno che s’abbevera al fiume. Lo chiama con un fischio, una carezza dietro le orecchie e BAM, gli aggiusta una mazzata fra capo e collo che risolve la serata – arrosto di unicorno alle erbette per tutti.
Ricordiamo qui di sfuggita che posate e utensili da cucina sono gentilmente offerti dall'osteria del Dormi, insieme a piccoli simpatici extra come saliera, grattugia e stuzzicadenti. Perché rubare incasso e argenteria può farlo chiunque: Margutte invece è un tipo scrupoloso.

Avendo dato ai bambini che guardano i cartoni animati sbagliati una ragione per piangere, i nostri odono in effetti un flebile lamento che viene di lontano. Cercandone l’origine, trovano una giovinetta dalle vesti stracciate, in catene, sorvegliata da un famelico leone.

Senza fare una piega Morgante si siede sul leone e ascolta la storia triste di Florinetta.


Tale è il nome della fanciulla, la quale dichiara di essere stata rapita sette anni or sono da un ulteriore gigante, Beltramo. Questi la nutre con serpi velenose e ogni volta che torna dalla caccia la prende a cinghiate senza motivo. Nel caso ci fosse ancora dubbio: giganti brava gente.

Mentre Florinetta prosegue nella conta delle proprie sofferenze, sopraggiunge questo Beltramo, con un cinghiale sotto il braccio e un orso in spalla. Lo accompagna il fratello Sperante, che si trascina dietro la carcassa di un drago.

Cioè no scusatemelo. Un drago.

Beltramo non tarda a notare il suo bel leone stecchito sotto il sedere di Morgante e la prende malino. Ne nasce un vivace battibecco, si alzano le voci, volano insulti. Poi Sperante vince il tiro sull’iniziativa e sferra un poderoso colpo di drago in faccia a Morgante.

Non ebbe pazienza a ciò Sperante:
riprese meglio il drago per la coda
ed una gran dragata diè a Morgante.

Alcuni esegeti sostengono che il drago non fosse veramente morto ma stesse solo fingendo per la propria salvaguardia. Gli stessi ritengono che, dopo la brutta esperienza, il rettile sia tornato a Skyrim.


Comechessia, se non era una buona idea invitare Morgante a mangiare ghiande, figuriamoci prenderlo a dragate sulla ghigna. Il gigante perde pazienza e serenità insieme, e si scaglia su Sperante staccandogli naso e orecchie a morsi.
Intanto il vecchio Holyfield a casa si consola pensando che tutto sommato quella volta contro Tyson gli è andata pure bene.

Nel frattempo Beltramo va accanendosi a bastonate sul buon (?) Margutte, che ne evita qualcuna ma perlopiù le prende. Una particolarmente accanita lo coglie pieno in fronte e lo stramazza al suolo lungo disteso. Beltramo si prepara a sferrare il colpo di grazia, ma Margutte non è ancora battuto. Raccoglie le forze e sferra una tallonata da terra con tanto di sperone, che prende l’aggressore alla gola e gli appiccica la lingua al palato. Mentre Beltramo cerca di riordinarsi la cavità orale, Margutte col conteggio a nove si rialza e con un fendente ben assestato divide il cranio del dirimpettaio a metà.

Torniamo all’altro ring. Nel pieno della lotta Morgante e Sperante ruzzolano a valanga per una scarpata. Il primo a rialzarsi è Morgante, che senza tanti complimenti raccoglie la testa dell’avversario e la scardina contro un masso.

Good game, well played.


Potremmo proseguire ancora a lungo nel rendiconto dell'avventura di Morgante e Margutte, ma non vogliamo togliere al lettore il piacere di sfogliare le pagine vergate di suo pugno dal buon Gigi Pulci. Il quale, dopo la prima edizione del 1478, ne vergò una seconda nel 1483, integrandola con cinque ulteriori cantari di tono più serio, in cui si racconta la fine epica e amara di Orlando.

Un anno più tardi il buon Gigi, in viaggio verso Venezia, si ammalò e giunse invece alla tomba. Gli furono negati i sacramenti e fu sepolto in terra sconsacrata come eretico.

Poco male. A un temperamento come quello suo, crediamo, dei sacramenti interessava poco. L'immortalità che gli spetta è quella delle lettere.

Oggi potremmo essere tentati di definire il Morgante come un'ideale spin-off della clamorosa duologia dell'Orlando Innamorato e (soprattutto) Furioso - ma  saremmo due volte in errore.

Primo, perché il Gigi pubblicò il suo capolavoro quattro anni prima del Boiardo e oltre cinquanta prima dell'Ariosto - scusate se è poco.

Secondo, perché per Crom! - Morgante il gigante non fu mai secondo a nessuno.



mercoledì 18 febbraio 2015

CLASSIC BADASS: Il Morgante (1/2)


Pagania, VIII secolo – il valoroso paladino Orlando combatte contro tre giganti musulmani che hanno assalito un monastero cristiano. Abbatte i primi due, risparmia il terzo, lo converte al cristianesimo e lo prende con sé come scudiero con il nome di Morgante.

Segnatevi questo nome, mentre ci accingiamo a un salto nel tempo di settecento anni.

1478, Firenze – tempi duri per i vitaioli. Alla corte dei Medici vanno di moda i filosofi platonici, gente d’accademia che mangia sano, beve poco e studia duro. Lucrezia Tornabuoni, madre del magnifico Lorenzo e bigotta patentata, non vede l’ora di rilanciare nei salotti il modello splendido e pettinato del paladino carolingio.
Da qualche tempo ha commissionato a uno dei letterati di corte la composizione di un poema epico cavalleresco. Il letterato se l’è presa comoda (diciassette anni, in effetti), ma ora finalmente l’opera è completa. Edizione prima, ventitré cantari in ottava rima. Con mani tremanti di eccitazione, Lucrezia si accinge alla lettura...


Mentre i servitori accorrono per portarle i sali, il letterato di cui sopra se la sghignazza in un angolo della stanza. Il suo nome è Luigi Pulci. Bazzica la corte dai primi anni ’60: quarantenne impenitente, godereccio e crapulone, sempre pronto alla battuta, preferibilmente sporca, il Pulci è stato compagno di bagordi del giovane Lorenzo prima che diventasse Magnifico, ma soprattutto prima che arrivassero i platonici a rovinare tutto.

Ora i tempi sono cambiati: lui no.

-Ritratto di Luigi Pulci nelle Cappelle Medicee a sinis... no cioè a des... vabbè.-

Emarginato dalla corte, dimenticato dal vecchio amico, Gigi Pulci aveva in Lucrezia l’occasione del riscatto: bisognava solo tenere a bada i gusti faceti, le velleità dissacranti, lo stile mordace. Per la celebrità e il successo ne valeva la pena, no?

Certo che no.

Con la penna in mano Pulci svariona già al canto primo e subito enuncia la sua definizione di Epico: burle sguaiate, smargiassate abbomba e botte da orbi.

Gli eroi del ciclo carolingio non ne escono bene. Carlo Magno è un vecchio rimbambito che tutto perdona. Il cavaliere Rinaldo si ubriaca con la cumpa prima di ruzzolare in battaglia e quando un incantesimo lo rende invisibile ne approfitta per tirare ogni sorta di scherzo bracalone alla povera Luciana. Solo Astarotte, erudito e tollerante, fa tutto sommato una figura dignitosa – peccato sia un demone dell’abisso.

Ma sopra tutti c’è lui, l’eroe – Morgante.


“Ghiottone, millantatore, ignorante di poca malizia, ma buono, fedele e coraggioso”. La sua arma preferita è un Batacchio di Campana +5. Dove c’è da menar le mani sta sempre in prima fila. Se una balena tenta di rovesciare la sua nave, lui la abbatte a pugni (e in Cimmeria prendono appunti). Fin dalla prima edizione diventa il beniamino di pubblico e critica, tanto che il poema finisce per prendere il suo nome a furor di popolo.

La storia di Morgante è un’epopea di scazzottate e peripezie rocambolesche. Lo sballo assoluto arriva nei cantari diciotto e diciannove, quando Morgante si imbatte in un gigante-nano (lolwut) di nome Margutte. I due formeranno uno dei party meglio riusciti di tutti i tempi - un bromance erede della gloriosa tradizione dei semidei babilonesi Gilgamesh ed Enkidu e ideale precursore della gloriosa tradizione dei semidei italici Bud Spencer e Terence Hill.


E pensare che tutto nasce da un incontro casuale, con l’ignaro Morgante che ferma Margutte per chiedere la strada (“Scusi, per la Siria sempre dritto?”). Margutte è in vena di chiacchiere. Vista la mole del pellegrino spiega che anche lui da bambino voleva diventare un gigante, poi a metà strada si è pentito e quindi è rimasto mezzo-gigante.


Si passa poi a discorrere delle rispettive religioni. Quando Morgante riferisce della sua conversione, Margutte rilancia vantandosi di cambiar fede come cambia mutande: oggi Maometto, domani Gesù, poi Budda, poi il budino, la trinità della torta, del tortello e del fegatello, ma sempre e soprattutto la brocca di vino.


Morgante ascolta ammirato, Margutte ci prende gusto: comincia così a enumerare tutte le nefandezze compiute nella sua vita. 


Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita 

Ha giocato d’azzardo, ha fatto il baro, l’adulatore, l’imbroglione, l’oste (ma solo perché così il vino gli costava meno), una serie di piccoli lavoretti di quelli che di solito finisci sul rogo, o in carcere quando va bene, anche ai danni di amici e parenti: “sul lavoro non si guarda in faccia a nessuno”. Ha bazzicato nel mondo della prostituzione con sfruttamento e con godimento (quando entra in un convento da cinque suore ne escono sei); è esperto nell’arte dello scasso e della rapina, sia in grande stile sia alla buona, tipo la cassetta delle offerte, i crocifissi e i calici in chiesa. Ruba il bestiame, il bucato steso dalle massaie, i mazzi di fiori lasciati in pegno tra amanti. Ogni tanto ha ammazzato della gente – ora non lo fa più – beninteso la voglia c’è sempre, ma è un’attività poco redditizia. Ha contraffatto libri, è uno spergiuro, bestemmiatore nato, afferma sempre ciò che è falso.
Il sogno nel cassetto?

Vorrei veder più fuoco ch’acqua o terra,
e ‘l mondo e ‘l cielo in peste e ‘n fame e ‘n guerra.


Una sola cosa il buon Margutte non ha mai commesso: il tradimento.

Morgante tira un sospiro di sollievo. “Ah guarda io proprio i traditori non li sopporto. In fondo sei una brava persona. Ti va di accompagnarmi in Siria?”

Così comincia l'avventura dei giganti.





Fonti:
- Luigi Pulci, Morgante, a cura di Dego G. (2013, BUR: Milano).
- Luigi Pulci, Morgante e opere minori, a cura di Greco A. (2006, UTET: Torino).

martedì 10 febbraio 2015

CLASSIC BADASS: Una Storia Vera


- Topolino
- Paul Dukas
- Johann Wolfgang von Goethe
- Un gigante che naviga sdraiato sull’oceano con la vela appesa al batacchio.

Ok, lo ammettiamo, abbiamo degenerato in fretta. Ma oggi siamo qui per uno scopo alto e nobile; vale a dire dimostrare che i quattro signori di cui sopra hanno, dopotutto, qualcosa in comune.

E non c’entrano le dimensioni del batacchio.

Siete con noi? Bene.

Allora, per i primi tre è facile. Fantasia di Disney ce lo ricordiamo tutti, sì? L’Apprendista Stregone, musica di Dukas, dall’omonima ballata di Goethe. E fin qui.

Ora dovete sapere che l’omonima ballata il buon Goethe non se l’era inventata da sé, ma aveva a sua volta tratto ispirazione da un’antichissima leggenda greca, riportata fra gli altri da un certo Luciano di Samosata, già incubo di innumerevoli generazioni di studenti del liceo classico. Ragioniamo un attimo su questo nuovo personaggio.

Siamo a tiro del 135 d.C.. L'Impero romano sta finendo di conquistare tutto il conquistabile. Luciano è un giovane barbaro figlio di barbari che nasce e cresce a Samosata, sulle rive dell’Eufrate. Anziché andarsene in giro per il deserto a rubare idoli sacri e sfidare divinità ancestrali come qualche collega di Cimmeria, ancora giovanotto sceglie la penna sopra la spada e si dà alla letteratura. Ma non a una letteratura qualsiasi: perché a Luciano garba il Fantasy.

-Sigla.-

Questa rivelazione non deve sorprendere. L’aspirazione al Fantasy fa palesemente parte della tradizione antica almeno dai tempi di Gilgamesh. I Greci poi sembrano andarne ghiotti, come può dedurre chiunque si trovi a sfogliare un'Iliade o (soprattutto) un'Odissea. Il nostro Luciano non fa eccezione e va matto, oltre che per Omero, pure per un altro libriccino, un po' più di nicchia, dal titolo Le meraviglie al di là di Thule. Un poema epico-avventuroso che non potete immaginare quant’era bello.

Davvero, non potete, perché è andato perduto.

Sì, dispiace moltissimo anche a noi.

Ora lo sappiamo cosa state pensando. Ma il fatto che i Greci antichi non abbiano inventato una Arda o una Terra di Mezzo come scenario per le loro storie si può ascrivere al semplice fatto che non avevano ancora finito di esplorare questo, di mondo. Compito che Luciano prende sulle proprie barbariche spalle nella sua Storia Vera. La cui unica ed essenziale verità sta in questo: nel fatto che è tutta una gran panzana.
E non lo diciamo noi. Lo dice lui, Luciano, nell’introduzione:

Perciò io stesso, spinto da vanagloria e desideroso di lasciare qualcosa ai posteri (...) giacché nulla di interessante mi era accaduto, mi sono volto anch’io alla menzogna, ma a un tipo di menzogna molto più onesto di quello degli altri. Giacché almeno in questo sarò veritiero: dicendo che mento.”


E insomma la Storia Vera è la storia di un fantasmagorico viaggio in nave compiuto al di là delle Colonne d’Ercole, che è un po’ come dire oltre i confini del mondo. Un’odissea eroicomica in cui a Luciano il Barbaro e alla sua ciurma ne capitano di tutti i colori.

Tipo: cadere dentro un tifone che li solleva dalla terra nello spazio dove si uniscono all’esercito della Luna per combattere contro l’esercito del Sole.

Solo da una premessa del genere Peter Jackson potrebbe ricavare una o due trilogie. Luciano fa di meglio: tira fuori un intero bestiario da far paura ai curatori di D&D.

Non crediate infatti che il Sole e la Luna quando scendono (o salgono?) sul campo di battaglia si limitino a lanciarsi addosso qualche migliaio di elfi in lattina (clear enough, PJ?).
No signori.

La prima vera guerra stellare della storia della letteratura occidentale è la definizione stessa della parola BADASS.

Sentite qua.
Abbiamo giganti che cavalcano grifoni a tre teste nei quali ogni piuma è larga come la vela di una nave, abbiamo arcieri che montano fameliche pulci assassine grosse quanto dodici elefanti adulti, abbiamo intere armate di letalissimi Cenchròboli “lanciatori di chicchi di miglio” e terribili Scorodòmachi “che combattono a colpi di aglio”.

-Beware of the PAPEROCONIGLIO-

E questo solo nelle fila dell’esercito della Luna. Dalla parte del sole vanno ricordati almeno i bombardieri-zanzara Aeroconòpi e i rabbiosi Cynobalani: guerrieri dalla faccia di cane che si battono a bordo di grossi peni volanti spaziali.

Avete capito bene: grossi peni volanti.

Spaziali.

Suck this, George Lucas.

Ma il meglio deve ancora arrivare. Dopo essere miracolosamente uscito vivo dallo scontro fra Luna e Sole, e dopo aver superato una serie di contrattempi (fra i quali: essere inghiottiti da una balena gigante) (dove l'abbiamo già sentita questa?) – il nostro ardimentoso capitano barbaro e la sua ciurma disgraziata visitano l’Isola dei Beati, dove dimorano le anime degli eroi morti, sotto il regno duro ma giusto di Radamanto.

Ci sono Achille, Teseo e Menelao che ha fatto pace con Elena, c’è Socrate che con la scusa della filosofia molesta i ragazzini. C’è anche Tersite, il gobbo dell’Iliade che incitava gli achei alla fuga anziché alla battaglia, ora impegnato a far causa a Omero per diffamazione. La perde, perché Omero è difeso a suon di supercazzole da Ulisse in persona.

Nice try, Tersite.

Ma Ulisse ha pure lui la sua bella gatta da pelare, vale a dire la moglie Penelope. La quale, dopo aver passato vent’anni a fare la calza in mezzo ai Proci, adesso che il marito è tornato non lo molla di vista un attimo. Colazione, pranzo e cena insieme, passeggiata digestiva insieme, corsa delle bighe insieme, torneo di ramino insieme, osteria con gli amici insieme, seguir virtute e canoscenza insieme.
Così il fenomeno di astuzia che espugnò Troia e sconfisse il Ciclope è ridotto a vivere la dopo-vita da marito sottomesso e bastonato, cui altra gioia non resta se non rimpiangere gli anni di prigionia sull’isola caraibica di Ogigia, quando il peggio della vita era un’estenuante maratona diuturna di tintarella e sesso selvaggio in compagnia di quel gran pezzo di ninfa di Calipso.

-Ulisse nell'Isola dei Beati: una diapositiva-

Mentre Luciano e gli altri si godono il loro weekend da leoni fra canti, balli, odalische succintamente vestite e vinello a fiumi, Elena comincia a flirtare con un marinaio della ciurma, un bel giovanotto di nome Cinira, che ha la pensata furba di rapirla, Paride-style. Menelao si sveglia nel cuore della notte, trova il letto vuoto, tira un cristone che riecheggia fin nelle aule dei colleghi del Valhalla e mobilita tutta la flotta degli eroi greci dietro ai fuggitivi. Non scoppia una guerra solo perché i piccioncini in fuga sono tosto accerchiati e ricondotti in porto. Elena si scusa fra le lacrime (e Menelao ci casca un’altra volta); Cinira se la cava con una lavata di capo, tanti paccheri sul collo e il ban a vita dall'Isola dei Beati.

Così la ciurma dei nostri riprende il mare, ma non prima di essersi fatta vaticinare il futuro da re Radamanto: il quale predice che Luciano non potrà tornare a casa prima di avere superato numerose nuove insidie in un “grande continente agli antipodi di quello che è abitato da voi”.

Infine il viaggio ricomincia, verso nuove isole, meraviglie, avventure. Ed è così che la storia di Luciano si incrocia brevemente a quella del misterioso popolo degli uomini-nave: titanici navigatori del grande oceano, che col loro sorriso buono e il loro batacchio di trenta metri vela-munito galleggiano bucolici accanto alla trireme dei nostri.


E quasi possiamo sentire la voce del buon Luciano, mentre indica al timoniere il solenne passaggio della flotta silenziosa:

- Mai avrei creduto, mio fido Scintaro, di poter incontrare in questo mondo creature tanto nobili e maestose.
- Sì ma hanno la vela attaccata al pene, capo.
- Non vedi come si muovono leggiadre sull'acque, con quale grazia assecondano il soffio dei venti?
-Io vedo un pene gigante con una vela attaccata, capo. 
-Solo a contemplare il loro incedere calmo e solenne mi sento ristorato nel corpo e nello spirito.
- CAPO. VELA. PENE.

-"Diventerà molto popolare"-

Queste sono dunque, fino al nostro arrivo in quest’altra terra, le avventure che ci accaddero sul mare e durante la navigazione, sulle isole e nell’aria e, dopo, nella balena (...): quello che ci accadde sulla terra ve lo racconterò nei libri che seguiranno.”

Con queste parole termina la Storia Vera: e di libri non ne seguono più.

Che l’autore abbia abbandonato l’opera intrapresa nella vecchiaia per mancanza di forze, che essa sia stata compiuta e poi perduta come chissà quante altre nella storia, che egli non avesse mai avuto intenzione di portarla a termine e che questa battuta finale sia la sua ultima micidiale menzogna – quale sia la verità non lo sappiamo, forse non lo sapremo mai.

Ci resta, dopo quasi duemila anni, la scoperta di avere ancora qualcosa da condividere 
con un uomo chiamato Luciano, il barbaro Luciano, scrittore e avventuriero, mezzo capitano Kirk, mezzo Mel Brooks, penna affilata e sorriso smargiasso, maestro di menzogna, pioniere del fantastico.

Ci resta la sua Storia Vera.



Fonte per le citazioni dall’opera: Luciano, Storia Vera, a cura di Cataudella Q. (1990, BUR: Milano).







martedì 3 febbraio 2015

Lo Hobgoblin - un'evocazione

 


"Tutto è pronto, Maestro."
Sothil-Boletor rimase immobile, seduto sui talloni a contemplare la fiamma di una candela nera.
Il novizio fissò per qualche secondo la nuca rasata del Gran Cerimoniere di Ulaag Khar e Mastro Mistero dei Settanta Segreti. Tamburellò le dita sul fianco della pesante tunica cerimoniale. Deglutì. Tirò su col naso, leggero colpetto di tosse, vai:
"Tutto è pronto, Mae-"
"HO SENTITO."
Il giovane discepolo si morse il labbro nello stesso momento in cui la candela decise che era arrivato il momento di levare le tende. La fiamma si spense lasciando nell'aria un odore osceno.
"Dannazione Squarzo, quante volte te lo devo dire che bisogna fare le cose con solennità, con pathos, ritmo drammatico, teatralità. MA DAI, MA OGNI VOLTA."
"P-pensavo non avesse sentito, M-maestro."
"Meditavo, Squarzo, per purificarmi da ogni traccia di positività prima della Nera Evocazione." Il tono di Sothil-Boletor era quello di uno che spiega le cose per l'ennesima volta con fatica, rassegnazione, amarezza. "Tutto deve essere perfetto, scandito, tac taaac." Una mano disegnò rettangoli sul palmo dell'altra. "Lo sai anche tu. Mi chiami una volta, io spengo la Candela del Male, mi alzo, indosso la Tunica del Terrore, metto la Maschera dell'Orrore, prendo il LIBRO e poi ci dirigiamo verso la sala rituale dove i nostri confratelli ci stanno aspettando. Da più di tre ore ormai, direi."
"Male, Terrore, Orrore, libro, tre or-"
"È il LIBRO non il libro, Squarzo, maledizione!"
"Sì sì il LIBRO, ce l'ho. No sul serio. Rifacciamo. LIBRO."
Il Gran Cerimoniere si strizzò tra indice e pollice il cicciolino di carne in mezzo agli occhi e sospirò profondamente. "Ricorda: sei clessidre di Canti Abissali, sei di Abluzioni Innominabili e sei di Meditazioni Profane. Poi entri."
"Ce l'ho eh, ce l'ho." Squarzo battè il mignolino del piede contro il leggio mentre usciva dalla camera. Varcò la soglia con due ultimi salti disperati.
Sothil-Boletor rimase solo con il proprio fastidio e diciotto clessidre di rituale da compiere. Ma quel fastidio, quel rancore che provava non era dovuto solo all'incompetenza del suo assistente. Era qualcosa di più profondo, titanico, abissale.
Si dice che l'uomo saggio dubiti di ogni cosa e rimetta in discussione ogni certezza. Eppure, l'uomo veramente saggio e, soprattutto, dotato di amor proprio, sa che esistono cose che non andrebbero interrogate. Cose che bisognerebbe lasciare al loro posto e dare per assodate nella vita: esistono, sono lì e non se ne andranno mai. Sempre con 'sta mania di mettere le dita ovunque, oh. Eppure eppure, proprio come coloro che, nella più miserabile delle epifanie, si rendono conto di avere un ronzio nelle orecchie e da quel momento in poi non smettono più di sentirlo, un giovane Sothil, molti inverni fa, si chiese "ma perchè fa tutto così schifo?". Da allora i tanti pulviscoli delle ingiustizie quotidiane, dei torti e delle incomprensioni smisero di essere trasportati dalla piacevole brezza dell'indifferenza e si accumularono, poco a poco, inesorabilmente. In quell'orribile bonaccia gli occhi si arrossavano sempre più spesso, e diventava sempre più difficile respirare e ogni cibo e bevanda sapeva di cenere. Chissà quali altre strade avrebbe potuto intraprendere Sothil-Boletor. Sarebbe magari bastata una brava e saggia donna a riaprire le finestre della sua anima e a far rientrare del vento salvifico. Ma si sa, spesso le cose sono più complicate di così. Perciò quando il non ancora Gran Cerimoniere trovò il Libro della Dannazione dei Settanta Segreti (anche conosciuto come il LIBRO) una soluzione alternativa si presentò lampante ai suoi occhi cisposi: bruciare tutto.
E mentre il Mastro Mistero rumirginava su tutto questo, i Canti Abissali risuonavano ancora più mortiferi e fuori tono. Le Abluzioni Innominabili, nella cenere dei morti, insozzarono come mai prima d'ora il suo capo e le sue membra. E infine le Meditazioni Profane posero un coperchio sulla giara del suo spirito, colma fino all'orlo di disappunto nero pece, affichè nemmeno una goccia si disperdesse.
"Tutto è pronto, Maestro."
Sothil-Boletor soffiò sulla Candela del Male e si alzò lentamente.
Squarzo guardò il suo maestro negli occhi. Represse un brivido. Questa volta era quella giusta.
"Iniziamo."

[...]

"...Vieni a noi, o Demone dell'Oscurità! ULAAG KHAR NA BOTHEE!"
Il crescendo cacofonico di canti, urla, gemiti, terrore e raccapriccio s'interruppe al suo culmine, allo scandire dell'ultima sillaba dell'orrida evocazione. Sothil-Boletor ansimante e colle braccia tese alla luna piena, aveva il viso imperlato di sudori freddi. L'intera fratellanza di Ulaag Khar tratteneva il fiato.
Il vento spazzava la cima del Monte Monco.
Silenzio.
Le stelle scintillavano nel cielo.
Silenzio.
Coff, coff.
No, dai.
Un gocciolone di sudore prudeva sulla punta del naso del Mastro Mistero.
Dubbio.
Insopportabile.
Più terribile di qualunque cosa sarebbe potuta comparire al centro del pentacolo.
Difatti, l'opposto: che nulla sarebbe comparso.
Dai, no.
Che era tutta una farsa, il LIBRO, i rituali, la fratellanza, Ulaag Khar stesso.
Stavano iniziando a mormorare.
Una vita passata a interpretare passaggi, sbrogliare enigmi, ricostruire mosaici di conoscenza proibita tassello per tassello. Notti innumerevoli sacrificate sulla pira dell'ossessione, interrogandosi su quella sillaba, quel simbolo, quel segno, su cosa fosse, cosa significasse, se significasse. Mari neri di demenza e paranoia nei quali la mente aveva rischiato di perdersi e annegare, guidata solo dal faro dell'ambizione.
Tutte panzane.
Sothil-Boletor chiuse gli occhi. Dunque finiva così, su un monte dimenticato dagli Dèi, assieme a una masnada di buzzurri ignoranti la cui unica soluzione al non potersi guardare in faccia ogni mattina era stata quella di calarsi un cappuccio nero in testa. Ed eccolo lì, il re degli stupidi, un libraio frustrato che aveva creduto a un mucchio di frottole su morte, distruzione e demoni infradimensionali. C'avevano pure messo due mesi a trovare una sola maledetta, racchissima vergine in sette vallate e decine di villaggi pedemontani. Persino lei aveva smesso di urlare, la baldracca.
Mentre il vociare dei sempre meno fedeli si faceva chiassoso e irrequieto, ricordi inaspettati riaffiorarono nella mente del Gran Cerimoniere. Ricordava i lunghi corridoi dell'Archivio Imperiale, le librerie gigantesche, l'odore della carta, il silenzio. Ricordava capelli neri sempre arruffati, occhiali spessi, un viso dolce. Ricordava i sorrisi imbarazzati quando la incrociava, non riuscire a guardarla negli occhi senza abbassare lo sguardo, salvo poi tornare a sbirciare subito dopo, tardi, perché lei non fissava più, e comunque lui lo sentiva che non era interessata. Ricordava quando si era seduta vicino a lui, i gomiti che si erano toccati per sbaglio, scusa scusami no davvero mi spiace scusa tu. L'invito improvviso di prendersi insieme una tisana alla malva quella sera. Non ricordava il sorriso ebete che ebbe stampato in faccia per l'intero pomeriggio, ma ricordava quando, con un tonfo, un libro cadde ai suoi piedi da qualche scaffale dimenticato.
Sothil-Boletor fissò il LIBRO ed esso ricambiò, beffardo.
Qualcuno stava urlando. Squarzo gli strattonava la manica con insistenza. Venivano verso di lui? Chi se ne importa. Che venissero e mettessero fine a questa farsa una volta per tutte. Se solo si fosse presentato all'appuntamento quella sera, se solo non avesse perso tempo su quello stupido, inutile libro di me-
L'aria esplose in un boato crepitante. Un grido ultraterreno, i cui tremendi, antichissimi gargarismi portarono alla follia le menti più fragili. Più o meno tutte.
L'intera Fratellanza di Ulaag Khar finí a gambe all'aria, investita dall'urto e dall'odore di sbobba rancida. Anche i pochi che poterono conservare i prosperi della ragione, dovettero fare i conti con il porfido pentacolato. Squarzo diede una culata talmente forte che per un paio di settimane si ritrovò ad avere una terza chiappa.
Seguí uno spettacolino un po' kitsch di nebbioni, luci rosse e risate troppo lente, basse e scandite per suonare naturali. Il tessuto della realtà venne strattonato da forze oscure e si sfilò proprio in quel punto che poi ti frega tutto l'orlo della giacca se continui a tirare.
C'era qualcosa nella nebbia: una sagoma di orrore estremo, umanoide agli occhi ma sbagliata alle budella, che si torcevano e agitavano e invitavano a una fuga senza guardarsi indietro, mai, per nessun motivo. La racchiona ragazza, come impazzita, si dimenava sull'altare fino a farsi sanguinare polsi e caviglie.
Sothil-Boletor, deglutí, saggiò la stabilità delle sue gambe e decise di rimanere a terra. Poi balbettò:
"G-grande Ulaag Khar... S-sei tu?"
A metà frase le corde vocali decisero di abbandonarlo e finì la domanda completamente in falsetto. Il risultato suonò così scemo e anticlimatico che il Gran Cerimoniere non riuscì mai a cancellare dalla memoria questo dettaglio, marchiato a fuoco dall'inadeguadezza.
Una folata di vento spazzò via la foschia. Un coro di sussulti diede il benvenuto al terribile Ulaag Khar, il Demone dell'Oscurità, l'Incubo dei Mondi, il Capro che Cammina come un Uomo, l'Orrore a Cinque Punte, il Funestissimo. Era proprio lí davanti a loro: orrende le zampe da capra, ricoperte di pelo nero, terribili le corna ritorte verso la luna e gli occhi, gli occhi per gli Dèi!, scintillavano di un male ancestrale nelle pupille oblunghe. Stringeva in una mano un coccio ricurvo, tipo una ciotola, e nell'altra una bacchetta di legno, con un'estremità tonda e larga, tipo un cucchiaio. Il suo pizzo caprino era sporco di latte.

...Eh?

"Oh porca pupazza." disse Ulaag Khar, a bocca piena. "Non ditemi che avete trovato il libro."

mercoledì 22 ottobre 2014

Lo Hobgoblin - un dialogo

Sputò uno gnocco di catarro sulla lama della mannaia. Lo spalmò per bene con le dita sulla superficie di ferro, fino a ottenere una pellicola bruna omogenea. Sollevò l’arma davanti agli occhi, la girò da una parte e dall’altra. Un raggio di sole scintillò contro la punta di ferro. Bronko scosse la testa, amaro.
Era un pessimo momento per attaccare una carovana. Tanto per cominciare era pomeriggio pieno, e a quell’ora un hobgoblin per bene avrebbe dovuto starsene nel suo sacco, a dormire. E poi con il sole ancora alto, con tutta quella luce dritta in faccia, come poteva sperare un onesto predone di cogliere qualcuno di sorpresa?
No, no, è tutto sbagliato, non è in questo modo che si prepara un’imboscata: così rimuginava Bronko, appiattito dietro un artiglio di roccia.
«Che poi, si potrà ancora chiamare imboscata, se non c’è il bosco attorno?»
Questo lo disse ad alta voce.
Lo hobgoblin al suo fianco tese le mani, intrecciò le dita, allungò le braccia bislunghe sopra la testa. Emise un suono cavernoso che poteva suonare come uno sbadiglio. «Hai detto qualcosa?»
«Stavo ragionando», proseguì Bronko, con una certa gravità. «Il Sergente dice ‘tutti pronti per l’imboscata a mezzogiorno’. Ma tu vedi alberi attorno a te?»
L’altro hobgoblin lasciò scorrere d'intorno uno sguardo pigro. Si grattò la pancia pelosa. «Ci sono dei cespugli.»
«Sono arbusti, Strozzo», sospirò Bronko. «Semplici arbusti. Io ti parlo di alberi veri, con il tronco, e i rami, e le foglie, e tutto.»
Strozzo allungò stancamente la testa oltre lo sperone pietroso, sporgendosi un poco verso il sentiero. La luce pallida del sole riverberava fra le rocce attraverso una sottile coltre di nubi. Dalle vette, dai ghiacciai perenni, spirava il primo subdolo fiato autunnale. «Laggiù», disse Strozzo. «Quello laggiù a me sembra un albero.»
«Un albero non fa una foresta», sancì Bronko.
«Be’, no. Ma che ti aspettavi? Le Montagne di Rocciadura sono fatte così.»
«Appunto. E se non c’è il bosco, che senso ha dire ‘imboscata’?»
Un sopracciglio irsuto si inarcò sulla fronte di Strozzo. «Quindi tu come la chiameresti?»
«Incespugliata, per esempio.»
Strozzo tossì, o forse era una risata. «Perché non inarbustata, a questo punto?»
«‘Inarbustata’ non si può sentire.»
«E ‘incespugliata’ sì?»
«A me non dispiace», disse Bronko. «E non sono l’unico a pensarla così.»
Strozzo tossì di nuovo, più forte. «Quindi ci hai pure ragionato su.»
«Ne ho parlato con Blorgh il Catarroso», rispose Bronko, serio. «E ha detto che la pensa come me.»
«Questo spiega tutto.»
«Perché?»
«Blorgh è un goblin.»
«E allora?»
«I goblin sono stupidi.»
«Non è vero.»
«Sono stupidi. Lo sanno tutti.»
«Il capitano Gnuk Mangiaorsi è un goblin. Diresti che è stupido?»
«Non davanti a lui.»
«Sa contare fino a dodici. L’ho sentito io. Tu sai contare fino a dodici?»
«E questo cosa c’entra? Io mica faccio il capitano.»
«E allora?»
«Allora a me non serve contare. Io devo solo usare questa», Strozzo sollevò una scimitarra dalla lama seghettata. O almeno, Strozzo la chiamava seghettata: in effetti era solo forgiata male e usata peggio. La ruggine la divorava dall’elsa fin oltre la metà. A stento il sole trovò un punticino lucido su cui specchiarsi.
Bronko si attaccò al gomito del compagno, per poco non gli saltò addosso. «E tiella giù, cretino! Vuoi che ti vedano fino a valle?»
«E se anche fosse?», grugnì Strozzo. «Tanto da qui non passa nessuno.»
«Il Sergente ha detto che passeranno», rispose Bronko, senza troppa convinzione. Era vero, il Sergente aveva detto che la carovana sarebbe passata da quelle parti, dopo mezzogiorno. Era per questo che aveva costretto la truppa a una simile levataccia. Ma che davvero degli umani potessero spingersi tanto in alto sulle Montagne di Rocciadura, era una prospettiva che anche a Bronko suonava improbabile.
Lo hobgoblin tamburellò con le dita sull’impugnatura della mannaia. Strisciò le natiche nella polvere, sprofondando più a fondo nel suo nascondiglio. «E comunque non puoi generalizzare in questo modo. Alcuni goblin sono stupidi. Molto stupidi, te lo concedo. Ma anche certi hobgoblin lo sono.»
Strozzo rise. «I goblin sono incomparabilmente più stupidi, lo sai. È per questo che non siedono a tavola con noialtri. Non saprebbero distinguere il pranzo dalla mano del vicino.»
«Non è vero. Dipende dagli individui.»
«Sarà, ma io non farei mai cambio.»
«Cambio di cosa?»
«Di razza», sancì Strozzo. «Mi piace essere un hobgoblin.»
Bronko sgranò gli occhi. O meglio, sgranò l’unico occhio che gli era rimasto: l’altro lo aveva perduto in battaglia. Da allora faceva collezione di oggetti dalla forma analoga, e periodicamente ne infilava uno nell'orbita, come rimpiazzo. Adesso per esempio toccava a una noce secca. «Non parli sul serio.»
Strozzo sostenne lo sguardo con un sorriso beffardo. «Perché? Tu forse preferiresti essere un goblin?»
«Non è questo il punto!» Bronko sbottò. «E poi–», un’occhiataccia di Strozzo gli ricordò che aveva alzato un po’ troppo la voce. «E poi, se ci pensi bene», disse piano, «fisicamente siamo uguali. Voglio dire, che differenza c’è fra un goblin e un hobgoblin? Io non l’ho mai capito.»
«I goblin gesticolano molto di più.»
«Cosa c’entra, quello è un fatto culturale. Anche tu ti sforzeresti per farti notare, se venissi su in una famiglia con ventotto fratelli che gridano tutti insieme perché gli scappa la cacca, o hanno finito la zuppa di cervella, o non riescono a dormire perché la sorellina scoreggia troppo forte.»
«Ecco, ne hai detta un’altra: i goblin fanno un sacco di figli. Molti più degli hobgoblin.»
«Fanno figli perché non hanno altro da fare, a parte la guerra. Non conoscono il gioco della palla anafilattica, né i tarorchi. E poi, statisticamente, muoiono più giovani degli hobgoblin. Ci hai mai fatto caso? Fra umani e nani, i soldati ne ammazzano a centinaia ogni mese.»
Strozzo annuì. «Senza contare gli avventurieri.»
«Gli avventurieri sono i peggiori», disse Bronko. «Sembra che si accaniscano proprio. Che ci provino un gusto particolare. Con gli orchi almeno stanno attenti. Contro i troll ci vanno solo i veterani. Ma i goblin? Prendi l’ultimo pivello che rimbalza fuori da un villaggio di pescatori, e prova a scommettere su chi vorrà andare a saggiare il filo della sua spada nuova.»
«Gleli fanno ammazzare per fare esperienza, quei porci». Strozzo sputò a terra con disprezzo.
«Del resto, qualche volta anche i goblin se la vanno a cercare», rifletté Bronko. «Sempre a cercar rogne al confine dei villaggi. Poi non ti devi lamentare se t’inseguono fin nella foresta. Ma a parte questo», e qui Bronko sollevò l’indice, prendendo un tono un po’ didascalico, «se mettiamo da parte la tendenza a morire giovani e tutto quel che ci sta dietro, se li guardi per come sono fatti insomma, sono praticamente indistinguibili da noi.»
Strozzo fece un gesto di stanchezza e noncuranza. «Ma smettila.»
«Dico davvero. Prova a mettere di fianco un goblin e un hobgoblin, due tipi nella media intendo, con la stessa cotta di maglia e lo stesso elmo, e li tieni tutti e due fermi immobili, senza farli fiatare, senza sentire l’accento, senza guardare come mangiano la zuppa di cervella, e te li guardi bene fin che vuoi, ci giri intorno, sopra, sotto, come ti pare – ebbene, io dico che pure se ti pigli tutta la giornata, non puoi sapere qual è il goblin e quale lo hobgoblin.»
«Ascolta, Bronko». Strozzo si tirò su in piedi. «Guardami bene». Allargò le braccia, divaricò le gambe. «Dì la verità. Ti sembro un goblin?»
«Non vale. Ti conosco da quando sei piccolo. Non riesco a pensarti come goblin.»
«Se non mi conoscessi.»
«Non ci riesco.»
«Provaci.»
Bronko alzò il capo di malavoglia. Diede a Strozzo uno sguardo sfuggente, parte imbarazzato, parte infastidito. Strinse gli occhi, li protesse dalla luce con il dorso della mano. Il sole aveva cominciato a declinare a ovest, il volto di Strozzo era illuminato a mezzo. I lineamenti della metà in luce apparivano ancora più pronunciati. Lo zigomo squadrato, il naso mozzo, l’angolo della bocca ferino, da cui spuntavano un canino e un paio di premolari appuntiti. L’altra metà del volto era ombra e oscurità. Bronko tirò un lungo respiro.
«Potresti essere adottato.»
Strozzo grugnì. «Lo dici apposta per non ammettere che ho ragione.»
«Non hai ragione.»
«Ce l’ho.»
«Goblin e hobgoblin sono fisicamente identici.»
«Siamo diversissimi.»
«Tipo?»
«Tipo cosa?»
«In che modo saremmo diversi, di preciso, noi e i goblin?», insistette Bronko. «Spiegamelo, se ne sei così sicuro.»
«Ma in un sacco di cose.»
«Fammi un esempio concreto», lo sfidò Bronko. «Me ne basta uno.»
Strozzo fece un gesto di massima insofferenza. «Allora, tanto per cominciare...» Muoveva le labbra, scandiva qualche sillaba, ma la voce non usciva. «Per esempio...» Esitò ancora, e ancora. Si morse il labbro. «Senti, siamo diversi. Altrimenti, mi spieghi come mai è diverso anche il nome?»
Bronko sogghignò, mostrando la punta di un canino eccezionalmente appuntino. «Non è ovvio?» disse. «I nomi sono diversi perché le tribù sono diverse. Ma come ti dicevo prima, questo è un fatto solamente culturale». Strozzo aggrottò la fronte. Bronko lo ignorò e proseguì. «È come per gli umani, o per i nani. A noi ci sembrano tutti uguali, loro si dividono per bandiere e colori. Li tirano fuori quando si fanno la guerra, per capire chi ammazzare e chi no. Ogni tanto fanno delle alleanze, per ammazzare qualcun altro». Sollevò l’indice. «Umani contro umani». Sollevò il medio. «Nani contro nani». Sollevò le dita corrispondenti sull’altra mano, le fece combaciare con le prime due. «Nani e umani contro goblin e hobgoblin.»
«E gli elfi?»
Bronko sollevò gli occhi al cielo. «No, gli elfi no. Non si alleano con nessuno da un sacco di tempo», disse. «Gli elfi fanno schifo a tutti.»
Strozzo approvò con ampi cenni.
«La verità», concluse Bronko, «è che goblin e hobgoblin sono uguali. E il fatto che non ci facciano mangiare allo stesso tavolo, che ci tengano sempre in squadre separate, neanche fossimo nani ed elfi, secondo me è profondamente ingiusto.»
«Pensala come ti pare», sospirò Strozzo. «Solo, se fossi in te, eviterei di parlarne al Sergente.»
«E perché non dovrei?»
«Ti ricordi cos’è successo a Skolo l’Odoroso?»
«Quello che il Sergente ha impalato la settimana scorsa?»
«Lui.»
«Mi pare si fosse lamentato per la spartizione del bottino», rifletté Bronko. «Cosa c’entra coi goblin?»
«C’entra, c’entra. Ti ricordi perché si era lamentato?»
«Mi pare volesse una parte più grossa...»
«E poi?»
«Se non ricordo male, lui aveva ucciso tre guerrieri e un mago. Ma ha preso lo stesso di gente che aveva fatto fuori appena uno o due bardi.»
«Esatto.»
«Ma cosa vuol dire? È tutta un’altra storia.»
«È esattamente la stessa storia.»
«Non c’entra un accidente, Strozzo.»
«Stammi a sentire». Strozzo si grattò un grumo di cerume dall’orecchio. «Tanto per cominciare, due dei guerrieri non erano guerrieri ma ranger, che è un po’ diverso. Ed erano già feriti: Skolo si è limitato a dare il colpo di grazia». Appallottolò il grumo fra le dita. «Inoltre il mago è precipitato nel fiume, quindi non è detto che sia morto. E se anche fosse, l’uccisione non andrebbe segnata a Skolo, ma al fiume.»
«Va bene, ma ancora non vedo quale sia il punto.»
«Il punto è che non spettava a Skolo giudicare». Con un cricco, Strozzo tirò la pallina di cerume contro il compagno. «Spettava al Sergente.»
La pallina rimbalzò contro l’elmo di ferro di Bronko. Lo hobgoblin la guardò rotolare ai propri piedi. Era una gran bella pallina di cerume, doveva ammettere: densa e compatta. La pestò sotto lo stivale.
«Non capisco cosa c’entra questo col mio discorso.»
Strozzo allargò le braccia. «È così che cominciano i problemi. Oggi chiedi più bottino. Domani l’uguaglianza fra goblin e hobgoblin. Dopodomani qualcuno si metterà a questionare gli ordini del suo sergente
«A volte anche i sergenti hanno torto.»
Strozzo puntò l’indice, sogghignò: «Visto?»
«Perché, secondo te il Sergente ha sempre ragione?»
«Non dico questo. Ma è meglio fare finta che ce l’abbia. Altrimenti ognuno pretenderà di dire la sua. E sai cosa succede quando ognuno dice la sua?»
«Un dibattito?»
«Succede la fottuta anarchia, Bronko. La fottuta anarchia.»
«Che problema hai tu con l’anarchia?» grugnì Bronko. «Non siamo mica elfi, che devono sentire cosa dicono gli anziani pure per scoreggiare. Un po’ di anarchia sarebbe divertente, tanto per cambiare.»
«In anarchia i soldati pretendono di essere esploratori, gli esploratori pretendono di essere cuochi e i cuochi pretendono di essere soldati.»
«Quindi?»
«Si mangia male, in anarchia.»
«Vuoi dire che tu adesso mangi bene?»
«Meglio che se cucinassi tu, sicuro. E poi vuoi dirmelo, come pensi di farla un’imboscata, con una truppa di cuochi?»
«E tu come pensi di farla, senza il bosco?»
«Non ricominciare, Bronko.»
«Sei tu che hai ricominciato, Strozzo.»
Strozzo si alzò in piedi, torreggiando dall’alto dei suoi cinque piedi contro il sole in declino. «Vuoi litigare?»
«Stai giù.»
«Non mi dire cosa devo fare.»
«Stai giù, deficiente!»
Prima che Strozzo potesse replicare, Bronko lo afferrò per il collo della cotta di maglia, costringendolo ad abbassarsi. Strozzo si liberò con uno strattone. Con un balzo fu addosso al compagno, gli premette il ginocchio contro il petto schiacciandolo contro le rocce. Sollevò al cielo il pugno guantato di ferro, un pugno grosso come quello di un orco, e non meno pesante. Un attimo prima di abbatterlo sul grugno di Bronko, si accorse che il compagno aveva il braccio teso: indicava qualcosa alle sue spalle. Allora, ancor prima di voltarsi, udì. Ruote che cigolano, zoccoli sulla polvere, nitriti di cavalli.
La mano di Bronko raggiunse l’impugnatura della mannaia.
«Arrivano.»
...continua?